Tra il bassopiano siberiano a Nord e le depressioni dello Zaisan e della Zungaria a Sud, la steppa dei Chirghisi ad Ovest e l’altipiano mongolo con la Valle dei Laghi e le catene del Tannu-ola e dei Saiani a Est si estende il grande sistema montuoso degli Altai.

Il carattere morfologico dominante dell’Altai è dato dal prevalere di forme d’altopiano su cui si elevano cime isolate e sottili catene – la cima più alta (Belucha) raggiunge i 4550 m – tra cui si incidono valli d’erosione e si deprimono bacini di affossamento. Il limite delle nevi sale in media, nell’Altai russo, da 2500 m sul lato Nord a 3000 sul lato Sud, e nell’Altai mongolo, da 3500 nella parte occidentale a 4000 m nella centrale e orientale. I ghiacciai attuali coprono, in tutto, poco più di 400 kmq. Le precipitazioni atmosferiche sono generalmente scarse; nelle zone montane cadono abbondanti le nevi, a cui attingono i fiumi, l’Ob, il Tomsk, il Jennisei, l’Irtish e i loro affluenti. Tutte le acque superficiali sono gelate da ottobre ad aprile.

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In questo universo frastagliato vive, diviso in diversi gruppi etnici, un coacervo di popoli -affini per tradizioni e costumi- di lingua turcica della Siberia meridionale, tutti in qualche modo riconducibili alla “cultura” Altai. Originariamente nomadi, con un’economia basata sulla caccia e la pastorizia (bovini, pecore, capre), gli Altai sono divenuti stanziali sono negli ultimi secoli, sotto l’influenza russa. Lo sciamanesimo si è conservato presso di loro fino a tempi piuttosto recenti, sebbene a partire dal XIX secolo i missionari ortodossi hanno diffuso il cristianesimo della regione e il buddismo si sia ramificato con grande forza.

Lo sciamanesimo si riferisce a una vasta gamma di credenze e pratiche tradizionali che comprende la capacità di diagnosticare e curare malattie, nonché tutti i possibili problemi della comunità e del singolo, dal come procurarsi il cibo al come sbarazzarsi dei nemici. Ciò attraverso l’asserita capacità dello sciamano di “viaggiare” in stato di trance nel mondo degli spiriti e di utilizzare i loro poteri. È questa la principale caratteristica dello sciamano che lo contraddistingue da altre forme di guaritore.

Secondo l’antropologia ufficiale, gli elementi fondamentali caratterizzanti dello sciamano, comuni a tutti i luoghi ove la credenza sciamanica si sia diffusa e pressoché identici dall’Australia alle Americhe, all’Asia, sono:

  1. La chiamata sciamanica. Lo sciamano, prima di diventare sciamano, asserisce di ricevere una “chiamata” da parte degli “spiriti”, alla quale non può rifiutarsi di rispondere positivamente.
  2. Il viaggio sciamanico. Un “viaggio” mentale, onirico nel “mondo degli spiriti”, che lo sciamano compie alla propria investitura e successivamente, con modalità differenti (a volte anche per mezzo di allucinogeni), ad ogni suo intervento volto a risolvere problemi propri, della comunità o di singoli. Le fasi caratteristiche del “viaggio” sono:
    • trance (stato psichico alterato che in alcuni casi viene raggiunto tramite l’uso di allucinogeni e che permane per tutta la durata del “viaggio”),
    • metamorfosi, lo sciamano si trasforma (durante il viaggio, quindi in sogno) nell’animale che lo protegge e da cui deriva il proprio potere.
    • combattimento(compie durante il viaggio combattimenti contro gli spiriti ed altri sciamani).
    • ritorno (lo sciamano “rientra” dal “viaggio” con la soluzione al problema)
  3. Anargirismo, ovvero il divieto per lo sciamano di ricevere compensi in denaro (pena la perdita del potere sciamanico).

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Questo è un esempio di rito sciamanico attraverso il quale viene invocata la Dea dai caratteri meteorologici, Yacïl Qatun :

Creata insieme alla pioggia,
discesa insieme alla grandine,
nei giorni estivi tuo è il temporale,
tu dal colletto di rosse nubi.
Yacïl Qan con i nastrini,
tu che giochi sul bordo infuocato,
che corri sul grande cielo infuocato,
figlia di Kögö Möŋkö !
Tu che ti sei separata dall’azzurro cielo,
che sei stata creata dall’azzurro cielo chiaro,
concedi cavalli affinché noi possiamo cavalcarli!
Imprimi l’anima vitale al bestiame!
Concedi figli da stringere al cuore,
imprimi l’anima vitale ai fanciulli!…

I popoli nomadi dell’Asia centro-settentrionale considerano la capanna una rappresentazione microcosmica dell’universo. La ger mongola, a cui corrispondono la tirmä tatara, l’ayïl altai, l’ög tuvina, la la č‘um di peli di renna dei Samoiedi, la capanna di scorza di betulla dei Mansi, la kot conica dei Hanty e i molti altri tipi di abitazione mobile nell’area nord-euroasiatica, rappresenta il più diffuso modello del cielo tanto altaico quanto uralico. La parola yurt (in italiano anche iurta), con cui è definito in occidente questo tipo di abitazione, è un prestito, attraverso il russo jurta, della parola turcica yurt «accampamento, casa» . In turco moderno, yurt significa «patria», «casa», «albergo, dormitorio» e «tenda»).

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Il cielo, nella sua rappresentazione più arcaica, è essenzialmente una tenda, di forma conica. Al di là della tenda-cielo c’è il mondo della luce e degli dèi: le stelle sono di conseguenza fori nella tenda attraverso i quali penetra la luce. Per i Burjati, la Via Lattea è la cucitura centrale della tenda. Gli dèi ne sollevano di tanto in tanto il bordo o l’aprono per vedere cosa accade nel mondo: è allora che cadono le meteore. Secondo i Sacha (Jakuti), quando la tenda-cielo è aperta gli dèi accordano agli uomini tutto ciò che essi chiedono.

Sempre secondo i Sacha, vi è un rapporto di analogia tra i numerosi livelli del cielo e le varie pelli sovrapposte e ben tese che formano il tessuto della tenda.

La Stella Polare brilla alla sommità della tenda celeste e i popoli altaici la concepiscono appunto come l’estremità della colonna che sostiene il cielo. I mitemi relativi a questa colonna cosmica si sono caricati via via di significati accessori che ne hanno talvolta alterato il senso fondamentale, connesso all’ascensione sciamanica. La Stella Polare è definita «colonna d’oro» dai Mongoli, dai Calmucchi, dai Burjati e dagli Evenki; «colonna di ferro» dai Kïrgïzi, dai Bašqorttar e dai Tatari della Siberia; «colonna solare» dai Teleuti dell’Altai . A tale colonna sono attaccate le stelle, come al palo presso le tende si legano i cavalli dei nomadi. I Tatari ritengono che i «sette animali» che compongono l’Orsa Maggiore siano appunto legati alla colonna cosmica. Per i Sacha la Stella Polare è il «signore del piolo dei cavalli». Analogamente, i Burjati affermano che i nove fabbri figli di Božintoy hanno forgiato la stella polare come piolo per i cavalli degli dèi. Stesse immagini tra i popoli uralici e paleoartici. Per i Samoiedi, la stella polare è «l’ombelico del cielo». Per gli Estoni è il «chiodo del fondo» del firmamento, immaginato come un gran calderone (tuttavia il termine estone põhjanelpuò tradursi anche «ombelico del nord»). Per gli An’kalyt/Chukchi e i Korjaki la stella polare è la «stella ombelicale».

Presso gli Evenki, il nome della colonna, tūrū, ha un ampio campo semantico, significando in senso generale «puntello, palo, asta», e indicando, in senso generale, tanto il pilastro principale del č‘um, tanto il pilastro o l’albero del mondo. Presso certi gruppi tungusi della Transbajkalica questo termine significa persino «universo».

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KIRGHIZI

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SAMOIEDI

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KORJAKI

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CALMUCCHI

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BURJATI

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SACHA (JAKUTI)

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KHANTY

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CHUKCHI

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TATARI

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Quando, tra i pastori nomadi dell’Asia Centrale la forma dell’abitazione si è modificata, e dalla tenda conica con un palo centrale si è passati alla yurt, la funzione mitico-religiosa della colonna è stata assunta dall’apertura superiore da dove esce il fumo. Presso i Hanty questa apertura corrisponde a un orifizio del cielo, anzi, parlano di un cielo con «sette aperture per il fumo», cioè con sette sfere celesti concentriche. Anche per gli Altai, a ognuno dei cieli sovrapposti corrisponde un foro per il fumo, ed è attraverso questi fori sovrapposti – probabilmente immaginati sulla stessa verticale – che lo sciamano passa nella sua ascesa. Gli Evenki chiamano la stella polare buḡa saŋarin, il «foro del cielo», perché connette il nostro mondo centrale, Dulu Buḡa, con il mondo superiore, Uḡu buḡa. Anche gli An’kalyt assimilano il buco del fumo al «foro» che la stella polare fa nella volta celeste e ritengono che i tre mondi siano collegati tra loro da fori dello stesso genere: in altre parole, il buco per il fumo del cielo ha la sua contropartita nel buco per il fumo della terra, il quale conduce agli inferi. E sono appunto questi i passaggi utilizzati dagli sciamani nei loro viaggi estatici.

Questi popoli (come altre culture limitrofe) usavano tumulare i morti nei kurgan , una fossa scavata nel terreno che nella metà meridionale consisteva in una cella, formata da travi lignee, riservata a sepolture umane; la parte settentrionale era destinata alle sepolture dei cavalli. Il tumulo era composto di terra e pietrame. Le inumazioni avvenivano al principio dell’estate o dell’autunno, il cadavere era imbalsamato dopo l’estrazione delle parti molli e dei muscoli, forse destinati a pasto rituale, e sepolto nella cella, spesso tappezzata di feltro, con il corredo funebre. Nei tumuli maggiori il defunto era sepolto in un sarcofago di legno intagliato e decorato. Il corredo funebre constava di piccoli tavoli di legno, lavorati a tornio, di armi, lucerne, borse di pelle contenenti semi di canapa usati come narcotici. Tra le vesti erano presenti camici di canapa, kaftan, pellicce, stivali, cuffie da donna. Uomini e donne usavano monili, tra i quali orecchini.

Gli animali, dopo essere stati uccisi erano sepolti con le bardature e parti dei carri. Le selle, i finimenti, i morsi erano decorati con placche di metallo e di legno decorate ad intaglio; caratteristiche le cuffie di cuoio decorate da pennacchi di legno e cuoio. Le sepolture destinate ai capi avevano un corredo più ricco.

La caratteristica dei grandi kurgan dell’Altai sta nel fatto che l’acqua di infiltrazione, penetrata in essi poco tempo dopo la loro costruzione, rimase congelata, data l’altezza cui le tombe erano situate, al limite delle nevi eterne; in queste condizioni di gelo costante e millenario si sono conservati perfettamente, non solo il corredo funerario completo, ma spesso anche i corpi imbalsamati e i corpi dei cavalli. Ne consegue che l’arte delle stirpi dell’Altai appare in tutta la sua varietà, nelle creazioni più svariate, non solo in metallo (tanto più che questi kurgan furono saccheggiati già nell’antichità) o in pietra, ma anche in legno, corno, cuoio, pelliccia e feltro, lavorati con le tecniche più diverse. Abiti di pelliccia o di pelle, ricoperti da applicazioni artistiche in cuoio o da mosaici di pelliccia, ogni sorta di ornamenti personali o di finimenti dei cavalli, fusi in rame o intagliati nel legno, utensili casalinghi e tappeti per le pareti.

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Dal nome dei monti Altai è detta «altaica» la famiglia linguistica, diffusa dalla Siberia alla Turchia, comprendente le sottofamiglie turcica, mongolica e tungusa. Relativa e appartenente al gruppo di popolazioni abitanti le regioni dei monti Urali e Altai. È una grande famiglia linguistica (la cui unità genealogica non è però ammessa da tutti gli studiosi), che comprende due distinte famiglie minori, l’uralica, con l’ugro-finnico e il samoiedo, e l’altaica, con il turco-tataro, il mongolico, il manciù-tunguso. I più notevoli caratteri comuni alle famiglie uralica e altaica sono: nella fonetica, la presenza di un’apofonia consonantica conservata nell’uralico e recentemente dimostrata anche nell’altaico; nella morfologia, l’agglutinazione; nella sintassi, la mancanza della subordinazione, sostituita da costrutti participiali o gerundivi.

Un esempio è la lingua Tuvana soprattutto in campo musicale con il gruppo Huun-Huur-Tu. Uno degli elementi distintivi della loro musica è l’utilizzo della tecnica del canto armonico, nel quale il cantante, sfruttando le risonanze che si creano nel tratto vocale che si trova tra le corde vocali e la bocca, emette contemporaneamente la nota e l’armonico relativo – detto anche ipertono-, il cui timbro può ricordare quello di un flauto.

Altro elemento peculiare è l’utilizzo, da parte del gruppo, di strumenti tradizionali come

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il byzaanchi

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il khomuz

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il doshpuluur

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Una musica ancestrale che in qualche maniera rievoca spazi immensi e incontaminati e quella vicinanza di cielo che richiama lo sciamanesimo.

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