Ellis Island : il “non luogo”, il “luogo dell’erranza”, “l’isola delle lacrime”, come venne definita da Georges Perec.

Ellis Island (chiamata in origine Gibbet Island dagli inglesi che la usavano per confinarvi i pirati sorpresi “con le mani nel sacco” e utilizzata poi come arsenale militare, dal 1892 al 1954, impianto di fortificazione e deposito di munizioni) è una delle quaranta isole delle acque di New York. E’ stato il principale punto d’ingresso per gli immigranti che sbarcavano negli Stati Uniti.

La traversata per raggiungere l’America durava 25/30 giorni, talvolta qualche giorno meno, dipendeva dalle “carrette del  mare”. I nostri emigranti arrivavano a New York e, fino al 1892, il centro deputato alla loro accoglienza era Castle Garden che però, ad un certo momento, si rivelò insufficiente ad accogliere questa enorme massa di gente. Viste le dimensioni dell’esodo, si decise così di trasformare Ellis Island in un centro di accoglienza.

Il porto di Ellis Island accolse più di 12 milioni di aspiranti cittadini statunitensi, che all’arrivo dovevano esibire i documenti di viaggio con le informazioni della nave che li aveva portati a New York. I Medici del Servizio Immigrazione controllavano rapidamente ciascun immigrante, contrassegnando sulla schiena con un gesso, quelli che dovevano essere sottoposti ad un ulteriore esame per accertarne le condizioni di salute (ad esempio: PG per donna incinta, K per ernia e X per problemi mentali).

Tutta una serie di norme operavano la drastica selezione. Esse spaziavano nei più disparati campi: si veniva respinti per malattia (per esempio, i tracomatosi erano al più presto reimbarcati per il paese di origine), per indigenza estrema, per età giovanile o troppo avanzata, per stato civile (donne e orfani che non avevano nel paese chi li soccorresse e li aiutasse a trovare lavoro).

“Accovacciati sulla coperta, presso le scale, con i piatti tra le gambe, e il pezzo di pane tra i piedi, i nostri emigranti mangiavano il loro pasto come i poveretti alle porte dei conventi. E’ un avvilimento dal lato morale e un pericolo da quello igienico, perché ognuno può immaginarsi che cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal mare sul quale si rovesciano tutte le immondizie volontarie ed involontarie di quella popolazione viaggiante. L’insudiciamento dei dormitori è tale che bisogna ogni mattina fare uscire sul ponte scoperto gli emigrati per nettare i pavimenti. Secondo il regolamento i dormitori sono spazzati con segatura, occorrendo si mescolano disinfettanti, sono lavati diligentemente ed asciugati. Ma tutte le deiezioni e le immondizie che si accumulano sui pavimenti corrompono l’aria con forti emanazioni e la pulizia sarà difficile.” Teodorico Rosati, Ispettore sanitario sulla nave degli emigranti

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Cento anni fa record di immigrati a New York. Immigrati europei appena sbarcati a Ellis Island ai primi del '900

Chi superava questo primo esame, veniva poi accompagnato nella Sala dei Registri, dove erano attesi da ispettori che registravano nome, luogo di nascita, stato civile, luogo di destinazione, disponibilità di denaro, professione e precedenti penali. Ricevevano alla fine il permesso di sbarcare e venivano accompagnati al molo del traghetto per Manhattan.

I “marchiati” venivano inviati in un’altra stanza per controlli più approfonditi. Secondo il vademecum destinato ai nuovi venuti, “i vecchi, i deformi, i ciechi, i sordomuti e tutti coloro che soffrono di malattie contagiose, aberrazioni mentali e qualsiasi altra infermità sono inesorabilmente esclusi dal suolo americano”. Tuttavia risulta che solo il due percento degli immigranti siano stati respinti. Per i ritenuti non idonei, c’era l’immediato reimbarco sulla stessa nave che li aveva portati negli Stati Uniti, la quale, in base alla legislazione americana, aveva l’obbligo di riportarli al porto di provenienza.

Nulla, nemmeno la pericolosa traversata oceanica, generava più paura negli emigranti della possibilità di essere respinti a Ellis Island. I nuovi arrivati temevano soprattutto la visita medica.
«Molti sono risultati affetti da tracoma e la loro esclusione era obbligatoria – raccontava Fiorello LaGuardia, che in gioventù aveva lavorato come interprete a Ellis Island – Era straziante vedere le famiglie separate».

“L’ispettore disponeva di circa due minuti per decidere se l’emigrante aveva o no il diritto di entrare negli Stati Uniti e prendeva questa decisione dopo avergli posto una serie di 29 domande: come si chiama?, da dove viene?, perché viene negli Stati Uniti?, quanti anni ha?, quanti soldi ha?, dove li tiene?, me li faccia vedere; chi ha pagato la sua traversata?, ha firmato in Europa un contratto per venire a lavorare qui?, ha degli amici qui?, parenti?, qualcuno può garantire per lei?, che mestiere fa?, lei è anarchico?. Se il nuovo arrivato rispondeva in un modo che l’ispettore riteneva soddisfacente, l’ispettore stampigliava il visto e lo lasciava andare dopo avergli dato il benvenuto “Welcome to America”; se c’era il benché minimo problema scriveva sul foglio S.I., che voleva dire Special Inquiry, ispezione speciale, e l’emigrante veniva convocato, dopo una nuova attesa, davanti a una commissione composta da tre ispettori, uno stenografo e un interprete, che sottoponevano il candidato all’emigrazione a un interrogatorio molto più approfondito. Quel che io Georges Perec sono venuto ad interrogare qui è l’erranza, la dispersione, la diaspora. Ellis Island per me è il luogo stesso dell’esilio, vale a dire il luogo dell’assenza di luogo, il non luogo, il da nessuna parte; è in questo senso che queste immagini mi riguardano, mi affascinano, mi implicano, come se la ricerca della mia identità passasse dall’approvazione di questo luogo di scarica, dove funzionari sfiancati battezzavano americani a palate. Quel che per me si trova qui non sono affatto segnali, radici o tracce, ma il contrario, qualcosa di informe al limite del dicibile, qualcosa che potrei chiamare reclusione  o scissione o frattura.” Georges Perec

 

(Ri)trovare l'America nelle foto dei migranti italiani

Almeno sino alla fine dell’Ottocento, gli armatori italiani effettuarono il trasporto degli emigranti con una flotta obsoleta di velieri che furono, a ragione, chiamati “le navi di Lazzaro”. La situazione peggiore era quella degli alloggi. Le cuccette, tutte nella parte bassa della nave, si affacciavano su corridoi che per lo più ricevevano aria soltanto dai boccaporti. In esse mancava letteralmente lo spazio vitale. Di conseguenza, al mattino, qualunque fossero le condizioni atmosferiche, tutti erano costretti a trasferirsi sui ponti: le malattie – polmonari e intestinali specialmente – erano all’ordine del giorno e anche la mortalità era alta. La valigia è stata a lungo il simbolo dell’emigrazione. Prima della valigia c’era il “fagotto”: un pezzo di stoffa, uno scialle nel migliore dei casi, in cui avvolgere le cose da portare con sé nel nuovo paese. E nel fagotto, o nella valigia, c’era tutto un “mondo”: ricordi della famiglia ormai lontana, un biglietto per un parente o un compaesano, talvolta una lettera di presentazione per qualcuno che, si sperava, potesse dare un aiuto, cibo, uno strumento musicale.

Nel paradiso terrestre promesso dalle “Guide” le cose, in realtà, stavano diversamente. Subito dopo l’arrivo gli immigrati cominciavano a rendersi conto di essere giunti nell’America com’era e non come l’avevano sognata. Le immagini da paradiso terrestre di cui si erano riempiti gli occhi e la mente trovavano scarso riscontro nelle pesanti formalità burocratiche cui venivano sottoposti e, almeno negli Stati Uniti, molti erano coloro che venivano respinti specialmente perché affetti da malattie invalidanti. Quelli che venivano ammessi nel paese erano trattati, e contrattati, come a una fiera del bestiame o a un mercato degli schiavi. L’emigrante che superava l’ostacolo dei meticolosi e puntigliosi controlli di Ellis Island, si trovava di fronte al problema impellente della sistemazione, dell’abitazione, del lavoro. Molti dei nostri emigranti arrivavano in America attraverso reti informali, chiamati da amici, da parenti, e così via, e questi erano i più fortunati perché potevano confidare su un riferimento fidato, importante; altri invece, che si erano imbarcati ed erano arrivati in America senza queste reti protettive, arrivati sulla Battery di New York, erano facile preda di personaggi poco raccomandabili, i boss, che hanno dato vita a un’abbondante letteratura sul cosiddetto “boss system” – come venne chiamato -, un’organizzazione composta da padroni italiani che masticavano un po’ di inglese e si preoccupavano, in modo molto interessato, della sistemazione dei nostri emigranti, mettendoli a pensionamento – i cosiddetti “bordanti”, corruzione del termine inglese “boarding house” – oppure si preoccupavano, sempre in modo interessato, di inviarli nei luoghi di lavoro.

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L’inizio del XX secolo segnò l’ascesa della mafia in America alla quale si oppose Joe Petrosino, il grande poliziotto italo-americano all’epoca a capo dell’Italian Legion, una squadra di poliziotti italo-americani creata proprio per contrastare l’ascesa della “Mano Nera”, così chiamata perché sui muri delle case degli emigranti italiani apparivano delle impronte di mani sporche di carbone. Petrosino intuì il collegamento mafioso tra New York e la Sicilia e, proprio per questo, tornò in Italia dove, il 12 marzo 1909, fu ucciso con tre colpi di pistola nel centro di Palermo. La scelta di creare una squadra di poliziotti formata solo da italiani era stata dettata dall’assunto che solo un italiano era in grado di capire i meccanismi criminali della Mano Nera ma dall’altra aprì la strada all’integrazione e alla valorizzazione degli italiani come difensori dell’ordine.

In tutto questo era evidente lo scontro culturale tra vecchio e nuovo mondo, per esempio tra gli immigrati italiani vigevano i vecchi codici contadini : alle giovani donne era vietato scegliere il marito, erano i genitori che se ne occupavano e quasi sempre la scelta ricadeva all’interno del proprio gruppo etnico, i bambini erano considerati dei piccoli adulti e impiegati in lavori non propriamente adatti alla loro età, l’obbedienza ad alcune tradizioni arcaiche era considerata fondamentale e imposta quotidianamente. Per questi motivi, ma non solo, gli americani nativi -e anche gli altri immigrati- tolleravano malvolentieri le abitudini rurali degli italiani. Soprattutto quelli meridionali, erano accusati di essere sporchi, rumorosi e usi a particolari cerimonie religiose. Spesso e volentieri venivano etichettati con epiteti come «dago» (italiano di basso rango”) e «wop» (per indicare atteggiamenti spavaldi, volgari e violenti). In particolare i calabresi e i siciliani erano descritti come individui dediti a delinquere, propensi ad una violenza fortemente caratterizzata dalla loro cultura. Ma anche l’appartenenza alla stessa origine “paesana” -l’unica forma di comunità, imposta o che seppero costruire almeno nei primi anni, fu quella di ghetti affollati e maleodoranti (il problema della lingua non aiutò certo una socializzazione diversa)- rafforzò pregiudizi e discriminazioni.

“Tenetevi, antiche terre, i fasti della vostra storia… Datemi coloro che sono esausti, i poveri, le folle accalcate che bramano di respirare libere, i miseri rifiuti delle vostre coste brulicanti: mandatemi coloro che non hanno una casa, che accorrano a me, a me che innalzo la mia fiaccola accanto alla porta d’oro”. Emma Lazarus

Uno dei simboli che più rappresentava l’arrivo nella “Merica” fu la Statua della libertà – chiamata da sempre Miss Liberty –  donata dalla Francia agli Stati Uniti in segno d’amicizia e si legò strettamente al fenomeno dell’emigrazione solo dopo che furono incisi sul suo basamento i versi della poetessa statunitense Emma Lazarus.

Emigranti negli Stati Uniti

Quella “bella signora” sembrava essere grande come l’America e come i sogni degli emigranti. Invece, all’arrivo nel porto di New York, dopo aver contemplato con la dovuta meraviglia la maestosa signora, gli emigranti venivano sbarcati e costretti a Ellis Island. Eppure, nell’immaginario di molti immigrati la Statua della libertà è diventata l’America pur con tutte le sue contraddizioni. Essi scoprirono che le strade non erano pavimentate di oro e addirittura che quelle strade sarebbe toccato a loro costruirle.

Il picco più alto di ingressi si ebbe nel 1907 con 1.004.756 di persone approdate. Dal 1917, modifiche alle norme d’ingresso limitarono i flussi immigratori. Venne introdotto il test dell’alfabetismo e dal 1924 vennero approvate le quote d’ingresso: 17.000 dall’Irlanda, 7.500 dal Regno Unito, 7.400 dall’Italia e 2.700 dalla Russia. La Depressione del 1929 ridusse ulteriormente il numero degli immigrati, dai 241.700 del 1930 ai 97.000 del 1931 e 35.000 nel 1932. Contemporaneamente Ellis Island diventò anche un centro di detenzione per i rimpatri forzati: dissidenti politici, anarchici, senza denaro e senza lavoro vennero obbligati a tornare al loro paese d’origine. Gli espulsi a forza dagli Stati Uniti furono 62.000 nel 1931, 103.000 l’anno successivo e 127.000 nel 1933. Durante la seconda guerra mondiale vi furono detenuti cittadini giapponesi, italiani e tedeschi e il 12 novembre 1954 il Servizio Immigrazione lo chiuse definitivamente, spostando i propri uffici a Manhattan. Dopo una parziale ristrutturazione negli anni ottanta, dal 1990 ospita il Museo dell’Immigrazione.

“Era una vecchia credenza popolare, spesso ritenuta vera dagli immigrati più ingenui, che inAmerica le strade fossero lastricate d’oro. Quando arrivarono qui, hanno scoperto tre cose: in primo luogo, che le strade non erano lastricate d’oro, in secondo luogo, che le strade non erano lastricate per niente, e in terzo luogo, che erano loro a doverle lastricare.”

E’ facile immaginare la scena dell’arrivo degli immigrati, che arrivavano sul suolo americano in questo esatto punto dopo un viaggio lungo e faticoso. Molti temevano di essere rimandati indietro per via della salute o per altre ragioni. Tuttavia, ben 17 milioni di americani sono stati “esaminati” – in media per quattro ore ciascuno – e poi fatti entrare tra 1892 e 1954. Come sarà facile immaginare all’interno del museo il trascinarsi stanco degli immigrati in una coda che sembrava senza fine ma carica di speranze, con pause per i controlli medici, per il controllo dei documenti e poi domande, domande, domande in una lingua straniera, e tutto intorno altre voci incomprensibili che riecheggiavano dalle pareti sottili. La maggior parte di loro raggiungeva la terra promessa e si recava nei quartieri etnici di New York o metteva radici altrove negli Stati Uniti. Altri, meno del 10 per cento, non venivano accettati e perciò condannati a essere rispediti a casa. Di questi alcui sceglievano il suicidio. In molti provavano a gettarsi dalla nave che li ritrasportava a casa, sperando di raggiungere Manhattan a nuoto e morivano nel tentativo.

Anche dalla riva, Ellis Island evoca un’atmosfera spaventosa, con i suoi edifici in mattoni scuri che ricordano un campo di lavoro del 19° secolo. Ma questo luogo da anche la sensazione di un passato non così distante. Due americani su cinque ottennero la cittadinanza americana passando per Ellis Island e per i loro discendenti, come pure per i visitatori stranieri di oggi, questo luogo rappresenta una emozione profonda.

Al di fuori dell’edificio principale si può vedere anche un “Wall of Honour”. Elenca oltre 700.000 nomi di persone o famiglie che sono passati di qui. E’ l’unico luogo negli Stati Uniti in cui un individuo può onorare il proprio patrimonio familiare in un monumento nazionale.

Inoltre il database dei documenti di Ellis Island è accessibile gratuitamente su Internet e dalla biblioteca del museo. Consente di effettuare una ricerca per nome, anno di arrivo, anno di nascita, città o paese di origine, nome della nave degli immigrati che sono entrati negli Stati Uniti da Ellis Island o dal porto di New York tra il 1892 e il 1924, anno del picco di immigrazione. I risultati di queste ricerche su un database con più di 22 milioni di dati. Si può anche ricercare la storia delle navi degli immigrati che arrivarono a Ellis Island, con tanto di foto.

  • per rimanere in traccia consiglio di vedere il film Nuovomondo di Crialese, uno spaccato vero e struggente su cosa voglia dire emigrare, con un finale assolutamente toccante anche per la fantastica Sinnerman di Nina Simone https://www.youtube.com/watch?v=QH3Fx41Jpl4. Consiglierei anche La leggenda del pianista sull’oceano di Tornatore, perchè sebbene l’emigrazione non sia il soggetto portante del film, è indirettamente una sorta di finestra sul tempo, una pagina commovente sul tema della partenza e della paura di abbandonare la propria terra o, nel caso di Novecento, la nave dove è nato e cresciuto.   
  • questa pagina è stata redatta con notizie tratte e adattate dal web in particolare da wikipedia.it, uonna.it, museo.fondazionepaolocresci.it, memoriaemigrazioni.it, newyorkmania.it, repubblica.it e corroborata da alcune note personali. 
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