In questi giorni si parla tanto del premio Nobel a Robert Allen Zimmerman in arte Bob Dylan e, chi pro e chi contro, in molti hanno sentito il bisogno di dare la propria valutazione, il proprio parere. Da musicodipendente premetto che ho apprezzato moltissimo la scelta di Dylan come premio Nobel per la letteratura, perchè non è stato “soltanto” un cantautore ma un autore che ha “portato la poesia abbinata alla musica a un livello superiore”. Ma vorrei, in queste sede, cantare (per restare in tema) gli allori di un nostro grandissimo autore, Fabrizio De Andrè, precocemente partito per il suo ultimo viaggio.

Un autore che ha stravolto i canoni della canzone italiana con le sue ballate, sempre sospese tra mito e realtà. E ha sfidato gli arroganti di ogni tempo con il linguaggio sferzante dell’ironia. Considerato da parte della critica uno dei più grandi cantautori italiani di tutti i tempi, viene spesso soprannominato anche con l’appellativo “Faber”, datogli dall’amico d’infanzia Paolo Villaggio in riferimento alla sua predilezione per i pastelli e le matite della Faber-Castell (oltre che per consonanza con il suo nome).

Profondamente influenzato dalla scuola d’oltre Oceano di Bob Dylan e Leonard Cohen, ma ancor piu’ da quella francese degli “chansonnier” (Georges Brassens su tutti), e’ stato tra i primi a infrangere i dogmi della “canzonetta” italiana, con le sue ballate cupe, affollate di anime perse, emarginati e derelitti d’ogni angolo del mondo. Il suo canzoniere universale attinge alle fonti piu’ disparate: dalle ballate medievali alla tradizione provenzale, dall'”Antologia di Spoon River” ai canti dei pastori sardi, da Cecco Angiolieri ai Vangeli apocrifi, dai “Fiori del male” di Baudelaire al Fellini dei “Vitelloni”. Temi che negli anni si sono accompagnati a un’evoluzione musicale intelligente, mai incline alle facili mode e ai compromessi.

De Andre’ usava il linguaggio di un poeta non allineato, ricorrendo alla forza dissacrante dell’ironia per frantumare ogni convenzione. Nel suo mirino, sono finiti i “benpensanti”, i farisei, i boia, i giudici forcaioli, i re cialtroni di ogni tempo. Il suo, in definitiva, e’ un disperato messaggio di liberta’ e di riscatto contro “le leggi del branco” e l’arroganza del potere. Di lui, Mario Luzi, uno dei maggiori poeti italiani del Novecento, ha detto: “De Andre’ e’ veramente lo chansonnier per eccellenza, un artista che si realizza proprio nell’intertestualita’ tra testo letterario e testo musicale. Ha una storia e morde davvero”.

La canzone d’autore di Fabrizio De André è musicalmente scarna nonché incentrata sulle melodie e sulla voce profonda. De André ha proposto inizialmente un repertorio di canzoni che fanno prevalentemente leva sulla sola chitarra e pochi contrappunti. Col passare del tempo, ha sempre più preso le distanze dalla canzone d’autore francese di Brassens, suo artista di riferimento, dando vita “a un certo nuovo modo di far poesia in canzone”. I suoi testi anticonvenzionali parlano di temi quali l’arroganza del potere, la marginalità e il sesso non tralasciando elementi di cronaca e satira. Secondo le parole di Massimo Cotto, il musicista sarebbe: « L’uomo che ha preso a picconate il muro bianco della canzone italiana e ha fatto vedere quello che c’era dietro: un mondo vero, un’umanità disparata e a volte anche disperata ma viva, vera. Non sempre onesta, ma che andava giudicata secondo metri diversi, perché se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo. »

Al repertorio asciutto di “Volume 1” (1967) si contrappongono le sonorità orchestrali e drammatiche di “Tutti morimmo a stento” (1968) riprese anche nel “Non al denaro non all’amore né al cielo”. Alla poeticità di “La buona novella” (1970) seguono “Storia di un impiegato (1973), che risente degli stimoli pop e rock dell’epoca, “Canzoni” (1974), che segna una transizione verso “un suono più variopinto e articolato” rispetto ai dischi precedenti e “Rimini” (1978), debitore del folk-rock americano. Molto diverso è “Crêuza de mä” (1984) che, ispirandosi alle culture etniche mediterranee, getta un ponte fra musica occidentale e orientale e fa un largo uso di strumenti etnici acustici.

De André è tuttora molto presente nella memoria collettiva, che lo ricorda come “il cantautore degli emarginati” o il “poeta degli sconfitti”. Gli estimatori di Fabrizio De André ammirano il coraggio morale e la coerenza artistica con cui egli, nella società italiana del dopoguerra, scelse di sottolineare i tratti nobili e universali degli emarginati, affrancandoli dal “ghetto” degli indesiderabili e mettendo a confronto la loro dolorosa realtà umana con la cattiva coscienza dei loro accusatori. Il cammino artistico di Fabrizio De André ebbe inizio sulla pavimentazione sconnessa e umida del carruggio di Via del Campo, prolungamento della famosa Via Pré, strada proibita di giorno quanto frequentata la notte. È in quel ghetto di umanità platealmente respinta e segretamente bramata che avrebbero preso corpo le sue ispirazioni; di ghetto in ghetto, dalle prostitute alle minoranze etniche, passando per diseredati, disertori, bombaroli e un’infinità d’altre figure. Nella sua antologia di vinti, dove l’essenza delle persone conta più delle azioni e del loro passato, De André raggiunse risultati poetici che oggi gli vengono ampiamente riconosciuti.

«De André non è stato mai di moda. E infatti la moda, effimera per definizione, passa. Le canzoni di Fabrizio restano. » (Nicola Piovani)

Tutta la discografia di De Andrè è imperniata su testi dall’alto valore poetico,  io ne ho scelti alcuni che vi propongo :

disamistade

(disamicizia, faida)

Che ci fanno queste anime
davanti alla chiesa
questa gente divisa
questa storia sospesa

a misura di braccio
a distanza di offesa
che alla pace si pensa
che la pace si sfiora

due famiglie disarmate di sangue
si schierano a resa
e per tutti il dolore degli altri
è dolore a metà

si accontenta di cause leggere
la guerra del cuore
il lamento di un cane abbattuto
da un’ombra di passo

si soddisfa di brevi agonie
sulla strada di casa
uno scoppio di sangue
un’assenza apparecchiata per cena

e a ogni sparo all’intorno
si domanda fortuna
che ci fanno queste figlie
a ricamare a cucire

queste macchie di lutto
rinunciate all’amore
fra di loro si nasconde
una speranza smarrita

che il nemico la vuole
che la vuol restituita
e una fretta di mani sorprese
a toccare le mani

che dev’esserci un modo di vivere
senza dolore
una corsa degli occhi negli occhi
a scoprire che invece
è soltanto un riposo del vento

un odiare a metà
e alla parte che manca
si dedica l’autorità

che la disamistade
si oppone alla nostra sventura
questa corsa del tempo
a sparigliare destini e fortuna

che fanno queste anime
davanti alla chiesa
questa gente divisa
questa storia sospesa

Un matto

(Dietro Ogni Scemo C’è Un Villaggio)

Tu prova ad avere un mondo nel cuore
e non riesci ad esprimerlo con le parole,
e la luce del giorno si divide la piazza
tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa,
e neppure la notte ti lascia da solo:
gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro

E sì, anche tu andresti a cercare
le parole sicure per farti ascoltare:
per stupire mezz’ora basta un libro di storia,
io cercai di imparare la Treccani a memoria,
e dopo maiale, Majakowsky, malfatto,
continuarono gli altri fino a leggermi matto.

E senza sapere a chi dovessi la vita
in un manicomio io l’ho restituita:
qui sulla collina dormo malvolentieri
eppure c’è luce ormai nei miei pensieri,
qui nella penombra ora invento parole
ma rimpiango una luce, la luce del sole.

Le mie ossa regalano ancora alla vita:
le regalano ancora erba fiorita.
Ma la vita è rimasta nelle voci in sordina
di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina;
di chi ancora bisbiglia con la stessa ironia
“Una morte pietosa lo strappò alla pazzia”.

Amico fragile

Evaporato in una nuvola rossa
in una delle molte feritoie della notte
con un bisogno d’attenzione e d’amore
troppo, “Se mi vuoi bene piangi ”
per essere corrisposti,
valeva la pena divertirvi le serate estive
con un semplicissimo “Mi ricordo”:
per osservarvi affittare un chilo d’erba
ai contadini in pensione e alle loro donne
e regalare a piene mani oceani
ed altre ed altre onde ai marinai in servizio,
fino a scoprire ad uno ad uno i vostri nascondigli
senza rimpiangere la mia credulità:
perché già dalla prima trincea
ero più curioso di voi,
ero molto più curioso di voi.

E poi sorpreso dai vostri “Come sta”
meravigliato da luoghi meno comuni e più feroci,
tipo “Come ti senti amico, amico fragile,
se vuoi potrò occuparmi un’ora al mese di te”
“Lo sa che io ho perduto due figli”
“Signora lei è una donna piuttosto distratta.”
E ancora ucciso dalla vostra cortesia
nell’ora in cui un mio sogno
ballerina di seconda fila,
agitava per chissà quale avvenire
il suo presente di seni enormi
e il suo cesareo fresco,
pensavo è bello che dove finiscono le mie dita
debba in qualche modo incominciare una chitarra.

E poi sospeso in mezzo ai vostri arrivederci,
mi sentivo meno stanco di voi
ero molto meno stanco di voi.

Potevo stuzzicare i pantaloni della sconosciuta
fino a vederle spalancarsi la bocca.
Potevo chiedere ad uno qualunque dei miei figli
di parlare ancora male e ad alta voce di me.
Potevo barattare la mia chitarra e il suo elmo
con una scatola di legno che dicesse perderemo.
Potevo chiedere come si chiama il vostro cane
Il mio è un po’ di tempo che si chiama Libero.
Potevo assumere un cannibale al giorno
per farmi insegnare la mia distanza dalle stelle.
Potevo attraversare litri e litri di corallo
per raggiungere un posto che si chiamasse arrivederci.

E mai che mi sia venuto in mente,
di essere più ubriaco di voi
di essere molto più ubriaco di voi.

la bomba in testa

…e io contavo i denti ai francobolli
dicevo “grazie a Dio” “buon Natale ”
mi sentivo normale
eppure i miei trent’anni
erano pochi più dei loro
ma non importa adesso torno al lavoro.

Cantavano il disordine dei sogni
gli ingrati del benessere francese
e non davan l’idea
di denunciare uomini al balcone
di un solo maggio, di un unico paese.

E io ho la faccia usata dal buonsenso
ripeto “Non vogliamoci del male ”
e non mi sento normale
e mi sorprendo ancora
a misurarmi su di loro
e adesso è tardi, adesso torno al lavoro.

Rischiavano la strada e per un uomo
ci vuole pure un senso a sopportare
di poter sanguinare
e il senso non dev’essere rischiare
ma forse non voler più sopportare.

Chissà cosa si trova a liberare
la fiducia nelle proprie tentazioni,
allontanare gli intrusi
dalle nostre emozioni,
allontanarli in tempo
e prima di trovarsi solo
con la paura di non tornare al lavoro.

Rischiare libertà strada per strada,
scordarsi le rotaie verso casa,
io ne valgo la pena,
per arrivare ad incontrar la gente
senza dovermi fingere innocente.

Mi sforzo di ripetermi con loro
e più l’idea va di là del vetro
più mi lasciano indietro,
per il coraggio insieme
non so le regole del gioco
senza la mia paura mi fido poco.

Ormai sono in ritardo per gli amici
per l’odio potrei farcela da solo
illuminando al tritolo
chi ha la faccia e mostra solo il viso
sempre gradevole, sempre più impreciso.

E l’esplosivo spacca, taglia, fruga
tra gli ospiti di un ballo mascherato,
io mi sono invitato
a rilevar l’impronta
dietro ogni maschera che salta
e a non aver pietà per la mia prima volta.

Hotel Supramonte

E se vai all’Hotel Supramonte e guardi il cielo
tu vedrai una donna in fiamme e un uomo solo
e una lettera vera di notte falsa di giorno
poi scuse accuse e scuse senza ritorno
e ora viaggi ridi, vivi o sei perduta
col suo ordine discreto dentro il cuore
ma dove dov’è il tuo amore, ma dove è finito il tuo amore.

Grazie al cielo ho una bocca per bere e non è facile
grazie a te ho una barca da scrivere ho un treno da perdere
e un invito all’Hotel Supramonte dove ho visto la neve
sul tuo corpo così dolce di fame così dolce di sete
passerà anche questa stazione senza far male
passerà questa pioggia sottile come passa il dolore
ma dove dov’è il tuo cuore, ma dove è finito il tuo cuore.

E ora siedo sul letto del bosco che ormai ha il tuo nome
ora il tempo è un signore distratto è un bambino che dorme
ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano
cosa importa se sono caduto se sono lontano
perché domani sarà un giorno lungo e senza parole
perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole
ma dove dov’è il tuo amore, ma dove è finito il tuo amore.

La canzone del padre

“Vuoi davvero lasciare ai tuoi occhi
solo i sogni che non fanno svegliare”.

“Sì. Vostro Onore, ma li voglio più grandi.”

“C’è lì un posto, lo ha lasciato tuo padre.
Non dovrai che restare sul ponte
e guardare le altre navi passare
le più piccole dirigile al fiume
e più grandi sanno già dove andare.”

Così son diventato mio padre
ucciso in un sogno precedente
il tribunale mi ha dato fiducia
assoluzione e delitto lo stesso movente.

E ora Berto, figlio della Lavandaia,
compagno di scuola, preferisce imparare
a contare sulle antenne dei grilli
non usa mai bolle di sapone per giocare;
seppelliva sua madre in un cimitero di lavatrici
avvolta in un lenzuolo quasi come gli eroi;
si fermò un attimo per suggerire a Dio
di continuare a farsi i fatti suoi
e scappò via con la paura di arrugginire
il giornale di ieri lo dà morto arrugginito,
i becchini ne raccolgono spesso
fra la gente che si lascia piovere addosso.

Ho investito il denaro e gli affetti
banca e famiglia danno rendite sicure,
con mia moglie si discute l’amore
ci sono distanze, non ci sono paure,
ma ogni notte lei mi si arrende più tardi
vengono uomini, ce n’è uno più magro,
ha una valigia e due passaporti,
lei ha gli occhi di una donna che pago.

Commissario io ti pago per questo,
lei ha gli occhi di una donna che è mia,
l’uomo magro ha le mani occupate,
una valigia di ciondoli, un foglio di via.

Non ha più la faccia del suo primo hashish
è il mio ultimo figlio, il meno voluto,
ha pochi stracci dove inciampare
non gli importa d’alzarsi, neppure quando è caduto:
e i miei alibi prendono fuoco
il Guttuso ancora da autenticare
adesso le fiamme mi avvolgono il letto
questi i sogni che non fanno svegliare.

Vostro Onore, sei un figlio di troia,
mi sveglio ancora e mi sveglio sudato,
ora aspettami fuori dal sogno
ci vedremo davvero,
io ricomincio da capo.

Il Suonatore Jones

In un vortice di polvere
gli altri vedevan siccità,
a me ricordava
la gonna di Jenny
in un ballo di tanti anni fa.

Sentivo la mia terra
vibrare di suoni, era il mio cuore
e allora perché coltivarla ancora,
come pensarla migliore.

Libertà l’ho vista dormire
nei campi coltivati
a cielo e denaro,
a cielo ed amore,
protetta da un filo spinato.

Libertà l’ho vista svegliarsi
ogni volta che ho suonato
per un fruscio di ragazze
a un ballo,
per un compagno ubriaco.

E poi se la gente sa,
e la gente lo sa che sai suonare,
suonare ti tocca
per tutta la vita
e ti piace lasciarti ascoltare.

Finii con i campi alle ortiche
finii con un flauto spezzato
e un ridere rauco
ricordi tanti
e nemmeno un rimpianto.

Fiume Sand Creek

Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura
sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
fu un generale di vent’anni
occhi turchini e giacca uguale
fu un generale di vent’anni
figlio d’un temporale

c’è un dollaro d’argento sul fondo del Sand Creek.

I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte
e quella musica distante diventò sempre più forte
chiusi gli occhi per tre volte
mi ritrovai ancora lì
chiesi a mio nonno è solo un sogno
mio nonno disse sì

a volte i pesci cantano sul fondo del Sand Creek

Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso
il lampo in un orecchio nell’altro il paradiso
le lacrime più piccole
le lacrime più grosse
quando l’albero della neve
fiorì di stelle rosse

ora i bambini dormono nel letto del Sand Creek

Quando il sole alzò la testa tra le spalle della notte
c’erano solo cani e fumo e tende capovolte
tirai una freccia in cielo
per farlo respirare
tirai una freccia al vento
per farlo sanguinare

la terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek

Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura
sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
fu un generale di vent’anni
occhi turchini e giacca uguale
fu un generale di vent’anni
figlio d’un temporale

ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek

Ho visto Nina volare

Mastica e sputa
da una parte il miele
mastica e sputa
dall’altra la cera

mastica e sputa
prima che venga neve
luce luce lontana
più bassa delle stelle

quale sarà la mano
che ti accende e ti spegne
ho visto Nina volare
tra le corde dell’altalena

un giorno la prenderò
come fa il vento alla schiena
e se lo sa mio padre
dovrò cambiar paese
se mio padre lo sa
mi imbarcherò sul mare

Mastica e sputa
da una parte il miele
mastica e sputa
dall’altra la cera

mastica e sputa
prima che faccia neve
stanotte è venuta l’ombra
l’ombra che mi fa il verso

le ho mostrato il coltello
e la mia maschera di gelso
e se lo sa mio padre
mi metterò in cammino
se mio padre lo sa
mi imbarcherò lontano

Mastica e sputa
da una parte la cera
mastica e sputa
dall’altra parte il miele

mastica e sputa
prima che metta neve
ho visto Nina volare
tra le corde dell’altalena

un giorno la prenderò
come fa il vento alla schiena
luce luce lontana
che si accende e si spegne

quale sarà la mano
che illumina le stelle
mastica e sputa
prima che venga neve

*note e testi reperiti su internet