Il segreto dei suoi occhi - di Juan Josè Campanella: recensione in anteprimaIl segreto dei suoi occhi (El secreto de sus ojos) regia di Juan Josè Campanella (2009). Benjamín Esposito è un ex pubblico ministero della Procura di Buenos Aires in pensione. Da venticinque anni un caso di omicidio lo tormenta: quello della giovanissima Liliana Coloto, violentata e uccisa nella capitale argentina nel 1974. Deciso a rispolverare la sua passione per la scrittura, Benjamín decide di scrivere un romanzo proprio su quel caso e chiede aiuto all’amica e collega di un tempo Irene. Tornare su quell’evento gli riaprirà le porte del passato, nella speranza di poter mettere definitivamente la parola “fine” a quella vicenda.

Il film di Juan José Campanella è sorprendente, perché capace di funzionare a livello superficiale come ottimo film di emozione purissima, ed è poi capace di narrarci altro attraverso il genere. Fa bene il regista a non considerarlo un noir, e anzi ad ammettere di usarlo per raccontarci sostanzialmente una storia d’amore. Ma oltre a narrarci di una storia d’amore “impossibile” (la storia tra Benjamín e Irene non è mai sbocciata), Campanella fa bene almeno un’altra cosa: pianta molto bene le radici del suo racconto, tratto dal romanzo di Eduardo Sacheri, nella storia dell’Argentina.

L’humus de Il segreto dei suoi occhi sta nella storia del paese, negli anni in cui saliva al potere Isabel Perón e la storia dell’Argentina andava incupendosi sempre di più: il regista è abile nel riuscire a trasmettere un clima sempre più claustrofobico e senza via d’uscita che si va pian piano stringendo attorno ai personaggi. E su questo terreno il film può costruire la sua trama, in cui un uomo solitario non riesce più a vivere il presente, è costretto a guardare al passato per poter costruirsi un futuro migliore.

“Lascia la porta aperta”, avvisa Irene ogni volta che Benjamín vuole parlarle in privato: ed è proprio la porta del passato che dev’essere in questo caso chiusa in modo definitivo. Il segreto dei suoi occhi è quindi un film sull’importanza e la necessità della memoria, e dall’altra un film in cui un passato non risolto può tormentare fino all’angoscia. Il rischio è sempre alto: tornando indietro per richiudere la porta c’è la possibilità di scoprire verità terribili.

Armato di un bagaglio tecnico ineccepibile (Campanella ha lavorato sì per il cinema, ma si è fatto le ossa anche con serial tv americani), il regista riesce a tenere in pugno lo spettatore con una grinta che attanaglia dall’inizio alla fine, con una padronanza del ritmo interno lodevole, permettendosi addirittura di giocare con la macchina da presa nell’incredibile pianosequenza ambientato nello stadio. Il suo sguardo è lucido e sapiente, perché narra la vicenda come solo un romanziere navigato sa fare.

Descrive i suoi personaggi con pochi dettagli, come nel caso del “folle” collega e amico del protagonista, Pablo, alcolista. Riesce a dare un significato anche alla questione stessa dello “sguardo”: non a caso Benjamín crede di aver individuato l’assassino da un suo sguardo stampato su una fotografia. E riesce a capirlo solo perché lo sguardo dell’assassino è uguale a quello che lui ha per Irene: “il segreto dei suoi occhi”, qui sta proprio il significato del bel titolo.

La stessa recitazione del cast, capitanato dal perfetto Ricardo Darín (qui alla sua quarta collaborazione con Campanella), dà una mano fondamentale alla riuscita complessiva dell’opera. Il segreto dei suoi occhi si rivela così un film stratificato e denso, in cui tutto sembra calcolato in ogni minimo dettaglio, e in cui tuttavia questa perfezione non raggela l’insieme, bensì serve a trasportare lo spettatore verso un colpo di scena finale agghiacciante che riesce a scuotere per davvero, in cui tutto il turbamento della trama cade addosso ai personaggi e allo spettatore in un colpo solo, come un pugno sui denti. Forse le porte del passato si possono chiudere, ma certi orrori e certi dolori non si possono mai dimenticare.

Mystic River

Mistic River regia di Clint Eastwood (2003). Jimmy, Sean e Dave sono tre ragazzini che giocano per strada in un quartiere periferico di Boston. Mentre stanno scrivendo i loro nomi sul cemento fresco del marciapiede due fantomatici poliziotti li rimproverano e costringono Dave a salire sulla loro auto. Inizia così “Mystic River”, con un rapimento di un ragazzino da parte di due pedofili. Dave, dopo quattro giorni, riuscirà a fuggire e tornare a casa violentato nel corpo e nell’anima. Eastwood in due sequenze e poche battute di dialogo riesce a mettere in scena un macigno morale su cui poggerà tutto lo sviluppo diegetico del film. Eseguendo un ellissi temporale la vicenda si sposta venticinque anni più tardi. Con una linearità tipica del suo cinema, Eastwood condensa l’intensità drammaturgica nella messa in scena e l’utilizzo di interpretazioni che donano spessore ai personaggi e rendono in modo diretto la complessità delle interazioni tra di loro. I tre ragazzini sono cresciuti. Jimmy Markum (Sean Penn) è un malavitoso che gestisce un emporio, sposato in seconde nozze e con una figlia diciannovenne avuta dalla sua prima moglie. Sean Devine (Kevin Bacon) è un detective della polizia di stato del Massachusetts e Dave Boyle è sposato con un figlio, segnato ancora dalle violenze subite da ragazzino.

La scomparsa della giovane figlia di Jimmy, Katie, e il ritrovamento del suo cadavere, mette in moto una nuova dinamica dei rapporti tra i tre uomini. Sean indaga sulla morte di Katie, ma Jimmy è impaziente di trovare il responsabile e si farà accecare dalla sete di vendetta. Lo strano comportamento di Dave e i dubbi della moglie Celeste danno la certezza che il colpevole sia il suo amico. Dave è una vittima predestinata (anche se non la sola) e Jimmy e Sean, su diversi piani, sono carnefici. Jimmy uccide Dave credendo che sia colpevole. Dave professa la sua innocenza dicendo che il sangue che ha visto Celeste è di un pedofilo che probabilmente ha ucciso e non di Katie. Sean scoprirà che invece Katie è stata uccisa per uno stupido gioco da altri due ragazzini (ancora una vittima, ancora due carnefici, in una ripetizione metaforica di un destino ineluttabile a cui non ci si può opporre). Dopo aver capito che Dave è stato ucciso per errore, Sean dice a Jimmy: “Su quell’auto ci siamo saliti tutti e tre” in una rappresentazione di un senso di colpa per quello che (non) hanno fatto; i tre ragazzini sono stati vittime (e in qualche modo tutti e tre anche carnefici).

Eastwood riesce a creare una messa in scena dove molti sviluppi narrativi sono svelati in modo indiretto – sia attraverso il dialogo dei personaggi sia giocando sulla messa in serie di sequenze che non ci sono, ma che lo spettatore può tranquillamente immaginare e ricostruire. E come se il regista americano avesse lavorato sugli spazi bianchi tra una parola e l’altra del suo linguaggio cinematografico. Del resto si ha sempre la sensazione di sapere più di quello che si vede. Il senso di colpa di questo scuro thriller etico viene metaforicamente mostrato dalle lunghe inquadrature del fiume Mystic. Le immagini del letto d’acqua nero del fiume, che fin dall’inizio punteggiano tutto il film, sono inquietanti e dicono tutto sul malessere che pervade un’intera città, generazione, umanità. E le sue rive sono protagoniste dell’assassinio di Dave da parte di Jimmy. Un assassino doppio perché, mentre sulla scena assistiamo all’omicidio di Dave, ne viene narrato un altro compiuto con le stesse modalità da Jimmy vent’anni prima.

Il Mystic River è il cuore di tenebra che lava nel sangue le colpe di Jimmy e della sua famiglia. Ma è un cuore di tenebra che richiede vittime sacrificali (Dave, Katie). I destini incrociati dei vari personaggi del film (sia i protagonisti che i secondari) in un tessuto narrativo dall’ordito complesso, rendono compatto e denso questo film di Eastwood all’interno di una classicità delle forma che fa di “Mystic River” un vero e proprio capolavoro del cinema americano contemporaneo.

Il favoloso mondo di Amelie

Il favoloso mondo di Amelie regia di Jean-Pierre Jeunet (2001). Il Favoloso Mondo di Amélie ha il pregio più unico che raro di riportare a galla sentimenti trascurati ma sempre vivi in ognuno di noi, raccontando, attraverso la magia della storia di questa Fatina dei tempi moderni, non solo il percorso di una ragazza speciale verso la felicità ma svelando, con la suggestione di sensazioni rese tangibili da immagini e colori, il senso profondo della felicità stessa: amare (e far amare) se stessi attraverso l’amore per il prossimo.

Una voce narrante onnisciente introduce lo spettatore nel mondo di Amélie: nata da genitori descritti lombrosianamente attraverso l’attribuzione di caratteristiche psicologiche a tratti fisici, è facile capire il problema principale di questa bimba introversa: una grande sensibilità non accolta ed una conseguente, profonda solitudine. Cresciuta in casa ed istruita dalla madre per via di una presunta anomalia cardiaca (erroneamente dedotta dal padre medico a causa della forte emozione suscitata dall’unico contatto fisico con lui: la visita periodica), Amélie si rifugia in un mondo di fantasia popolato da creature ed oggetti fantastici in cui trova conforto ed un’efficace difesa dalle inquietudini della vita vera.

Trascorrendo le giornate dedicandosi alla ricerca di quei piaceri sensoriali (staccare la colla dalle mani, mettere due ciliegie come orecchini o riempirsi la bocca di caramelle), comuni a tutti i bambini, ma purtroppo per lei non condivisibili, la fanciulla diventa una giovane donna, pronta ad essere indipendente ma non ancora ad abbandonare i suoi sogni ad occhi aperti ed affrontare la realtà.
La svolta arriverà casualmente il giorno dell’annuncio della tragica morte di Lady D, quando Amélie farà una scoperta tanto semplice quanto straordinaria per chi, come lei, vede nelle piccole cose la chiave per aprire porte di mondi inesplorati e straordinari… Nasce così il proposito di una missione privata: in attesa di riuscire ad affrontare la vita e trovare la propria strada, Amélie si dedicherà alla difesa dei più deboli e alla felicità degli altri…ma chi si occuperà di lei?

Il Favoloso Mondo di Amélie è un film indimenticabile che obbliga lo spettatore a fermarsi e cambiare prospettiva insieme alla protagonista, scoprendo un mondo – appunto – favoloso ma alla portata di tutti: che bello sarebbe se, nei momenti di stand-by della vita, si sfruttasse quello spazio altrimenti buio per illuminare la speranza del prossimo. Difficile scegliere quale sia l’aspetto migliore di un film del genere: c’è l’imbarazzo della scelta tra una fotografia onirica che regala scorci magici di una Parigi (ed in particolare del quartiere di Montmartre) mozzafiato, a cavallo tra un dipinto ed un prodotto di animazione, i primi piani con sguardo dritto in camera della espressivissima (e bravissima) Audrey Tautou, una sceneggiatura in cui ogni frase ha il suo peso e che pullula di possibili citazioni, una colonna sonora i cui temi continuano ad essere riutilizzati e riproposti o una regia tanto stravagante quanto impeccabile?

A voi la scelta e l’obbligo – se ancora non lo aveste visto – di colmare questa lacuna, regalandovi due ore di puro divertimento, in cui fare il pieno di significati profondi e benessere per il cuore e lo spirito. Un capolavoro!

Non è un paese per vecchiNon è un paese per vecchi regia di Joel & Ethan Coen (2007). Il cacciatore Llewelyn (il finalmente protagonista assoluto Josh Brolin) s’imbatte per caso in una strage già avvenuta: cadaveri sparsi (persino quello di un cane), mosche che ronzano sui corpi e una valigetta con due milioni di dollari. Ovviamente se la porta via. Ecco l’evento che accende la miccia. Llewelyn entra in un vortice di accadimenti che non comprende, sa solo che è braccato, inseguito per via di tutti i soldi che ha arraffato. Ignora la ferocia dell’uomo che lo cerca: Anton Chigurh, uno psicopatico senza freni, che uccide sempre con la stessa espressione, con le scuse e le modalità più disparate. Da una parte il cacciatore che diventa preda, dall’altra un nemico che per quanto spaventoso non pare nemmeno umano. Nel mezzo, una serie di vittime, innocenti o meno, che si sono frapposte nel confronto tra i due. E poi c’è lo sceriffo della contea, un rincoglionito Tommy Lee Jones che, al pari della Frances McDormand incinta di “Fargo”, sembra non capire quasi nulla della carneficina in corso fino all’ultimo.

Ancora una volta, la morte è un fatto come un altro. Non c’è nessun pathos o nessuna sofferenza nel metterla in scena. In un vortice umano in cui tanti personaggi giocano la loro partita, quello che importa è mostrare come sia difficile prevedere gli effetti di un’azione. Da una leggerezza, da una distrazione o tentazione, può scatenarsi l’apocalisse. Ognuno vivrà l’esplosione di violenza in modo diverso: Llewelyn con l’occhio sconvolto di chi non immagina che tutto possa realmente accadere; Anton (cui Javier Bardem dà la forma di un killer difficilmente eguagliabile in futuro) con l’impassibilità di chi è assuefatto al sangue; lo sceriffo Ed Tom (le cui parole che riassumono il senso del titolo chiuderanno il cerchio) con il disincanto di chi ha conosciuto tempi migliori e “non può fermare ciò che sta arrivando”. “Non è un paese per vecchi” è un grande film. E lo è in primo luogo per la riconfermata vena letteraria dei Coen. Le intuizioni di sceneggiatura sono brillanti come ai bei tempi, l’abilità di lavorare a un cinema a tema, senza perdere il gusto del divertimento metalinguistico, è ammirevole. Certo, i tempi sono passati e anche loro ne prendono atto. Nonostante i temi portanti che richiamano tutta la loro precedente filmografia, quest’ultimo lavoro ha in sé anche una dose di realismo, di crudele osservazione della società umana, che lo rende molto meno ironico dei suoi predecessori. Non c’è musica, il montaggio cambia direzione, passando a uno stile molto più classico, la regia stessa rimane più prudente, senza quelle celebri impennate virtuosistiche capaci di rendere esilarante qualsiasi scena.

Risultati immagini per il pianista
Il Pianista regia di Roman Polanski (2002). Sopravvivere con ogni mezzo, in condizioni che l’umana natura non dovrebbe riservare a nessuno, con la consapevolezza che ogni gesto, anche la compassione più inaspettata, come l’aiuto di un ufficiale che sta dall’altra parte della ‘barricata’, hanno il sapore intenso della speranza. Olocausto è una parola dal significato potentissimo, dalla quale non ci aspettiamo altro che immagini di sofferenza e infinito dolore.

Roman Polanski con “Il pianista” affronta questo tema con la consapevolezza di chi l’orrore l’ha visto e vissuto; con il turbamento di una storia che possa, nostro malgrado, ripetersi in forme, indiscutibilmente diverse, ma non meno penose. Un omaggio non solo poetico, se si considera che la Prima del film si è tenuta nel settembre del 2002, in quella stessa Varsavia nella quale ha origine questa storia.

 

È il 1° settembre del 1939. Con questa data si suggella l’effettiva dichiarazione di guerra della Germania, che invade la Polonia. Władysław Szpilman, un giovane prodigioso pianista ebreo, sta eseguendo Chopin per una registrazione radiofonica, quando arriva la notizia dell’invasione nazista. La libertà individuale e collettiva è definitivamente messa al bando. Iniziano le prime vessazioni, poi le conseguenti leggi razziali; la stella di Davide cucita sugli abiti è solo l’inizio di una segregazione che culminerà con la costruzione del Ghetto. Il giovane non può far altro che assistere inerme all’orrore che si attanaglia in una morsa stretta e soffocante. L’intera sua famiglia viene deportata e lui è costretto a sopravvivere da solo nel ghetto, sino all’arrivo dell’Armata Rossa.

In questa profonda solitudine la musica diventa il suo unico “tangibile” appiglio nell’oscurità, il faro che impedisce di naufragare. Ma neppure la musica, dopo tanto dolore, avrà lo stesso sapore consolatorio. Gli occhi hanno visto troppo… Vincitore della Palma d’oro al festival di Cannes e di tre Premi Oscar fra cui miglior regia e miglior attore Adrien Brody, il film è tratto dal romanzo autobiografico di Wladyslaw Szpilman “Death of a City” (1984).

Million Dollar Baby

Million Dollar Baby regia di Clint Eastwood (2004). E’ bello e segnato dal tempo il viso di Clint Eastwood in questo “Million Dollar Baby”, film che ha prodotto, diretto e interpretato, oltre a scriverne interamente la colonna sonora. Ed è insolitamente dolce nei panni di un ruvido allenatore di pugili, abituato da una vita ad applicare la strategia del proteggere sé stessi sul ring come nelle relazioni, dopo aver consumato una dolorosa e irreversibile rottura con la propria famiglia. La sfida di Frankie Dunn è infatti quella di imparare nuovamente a fidarsi dei sentimenti, che si presentano sotto forma di una giovane donna determinata a farsi strada nel mondo della boxe. Non si facciano illusioni, quindi, coloro che andranno a vedere questo film nella speranza di assistere a incontri memorabili. Maggie Fitzgerald, la ragazza da un milione di dollari che ha il volto di Hilary Swank, è una a cui piace stendere gli avversari al primo colpo. La metafora è utile per descrivere in poche parole la miscela di determinazione, paura, diffidenza e speranza che anima chi dalla vita non ha avuto nulla, ma è deciso a guadagnarsi un’occasione.

Poche concessioni allo spettacolo, dunque. Il film non indulge nella tecnica sportiva se non per raccontare una storia di impegno e sacrificio per raggiungere, partendo dal nulla, un obiettivo ambizioso come il titolo mondiale. E’ lo sfondo, questo, in cui si inquadra uno dei temi portanti della pellicola: la riconquista del senso della famiglia e dei legami padre-figlia, anche se non necessariamente determinati dalla parentela di sangue. La famiglia è un concetto astratto e ben si applica a qualsiasi gruppo di persone, sebbene eterogeneo come quello formato da Frankie, Maggie e Eddie detto Scrap, amico di Frankie un po’ bistrattato e sempre fedele, a cui è assegnato il compito di narratore ma anche quello di aiutare il protagonista a intraprendere i cambiamenti decisivi per la propria vita.

Un anno dopo “Mystic River” Clint Eastwood riflette dolorosamente sulla difficoltà di preservarsi dai duri attacchi dell’esistenza. Solitudini, rapporti affettivi falliti, delusioni mettono a dura prova la fiducia nella vita. A settantacinque anni, tanti ne compie nel 2005, cerca una risposta alle inquietudini nella fede in Dio, vissuta con una sostanziale difficoltà ad abbandonare gli scetticismi creati dalla razionalità e dalla disillusione.

E’ difficile pensare, infatti, che non ci sia un po’ di Eastwood in quel Frankie che ogni giorno assiste alla messa e tormenta il sacerdote con assurdi quesiti sulla natura divina. Da qui la reticenza a uscire dallo “Hit Pit”, la palestra di cui Frankie è proprietario, che rappresenta il piccolo mondo conosciuto e privo di rischi, popolato da figure buffe e rassicuranti.

La donna che canta

La donna che canta (Incendies) regia di Denis Villeneuve (2010). L’apertura del testamento della madre riserva inaspettate notizie per i due gemelli Jeanne e Simon. La prima scoperta riguarda il passato della loro madre, che non è sempre stata la tranquilla impiegata di un notaio che loro hanno conosciuto, viene così alla luce anche un misterioso fratello e un padre che non sarebbe morto ma che vive nei territori palestinesi. Due buste devono essere consegnate ai rispettivamente ai due uomini, solo allora sarà possibile aprire una terza lettera e completare i desideri della madre defunta. In principio solo Jeanne accetta di partire dal Canada per il medio oriente e iniziare la ricerca del padre, ma presto le sue scoperte renderanno necessaria anche la presenza di Simon.

Il quarto film di Denis Villeneuve è un atipico esempio di come un film possa descrivere uno scenario di estrema attualità come quello della Palestina, raccontando una storia palesemente di fiction, con uno sviluppo a incastri che potrebbe fare storcere il naso a chi da un film di questo genere richiede una completa adesione alla realtà fattuale.

Villeneuve invece ama le storie complesse, dove la narrazione si intreccia con la matematica (si pensi a Polytechnique) e per farlo porta sullo schermo un pezzo di teatro che racconta l’incredibile vita di una donna palestinese. Impossibile raccontare lo sviluppo della vicenda senza suggerirne i passaggi chiave e anticiparne i colpi di scena, palesemente esagerati e iperbolici ma che riescono a rendere universale il dolore di una terra attraverso lo strazio di una madre, ma allo stesso tempo esprimendo tutto l’amore che si può avere nei confronti della stessa terra come solo una madre può provare.

Il titolo originale del film, Incendies, esprime in modo metaforico il fuoco che arde nel cuore della sua protagonista (in absentia, la madre morta). La traduzione italiana per una volta ha senso poiché “La donna che canta” è stato in passato un appellativo con cui veniva chiamata la madre dei due gemelli.

Il film procede con ritmo serrato fino al disvelamento degli intenti celati nelle buste del testamento. Riusciranno i gemelli a trovare il fratello e il padre persi nei villaggi sabbiosi della Palestina Libano? Villeneuve lo descrive in modo intricato ma affascinante, lo spettatore si appassiona per la ricerca ma viene proiettato nel presente e nel passato di una nazione martoriata da decenni di guerra. Villeneuve costruisce così un film di grande ambizione che riesce a coniugare la tragedia e il romanzo d’appendice.

Nuovomondo

Nuovomondo regia di Emanuele Crialese (2006). Vincitore del Leone d’Argento “Film Rivelazione”, riconoscimento creato ex nihilo per non lasciare senza premi il film più amato dalla critica internazionale, “Nuovomondo” ha il pregio di non assomigliare a nessun’altra opera, di non inseguire o ricalcare modelli sebbene i referenti cinematografici siano presenti in filigrana (Visconti in primis, ma anche il Buñuel de “Los Olvidados”) e, cosa rarissima nella nostra cinematografia, sottende una precisa idea di cinema. Crialese guida il racconto con maestria, evita di adeguarsi con un tocco “pauperistico-lacrimevole” a un soggetto così abusato. Al contrario, ha il coraggio di trattare la materia narrata con un’ironia non sprezzante: la foto di rito scattata prima della partenza, il test psicoattitudinale a Ellis Island, in cui la candida ingenuità di Salvatore “annulla” le insidie della prova ed annichilisce i presenti con una straordinaria dimostrazione di intelligenza messa al servizio della pratica, del gioco manuale.

Con uno stile asciutto, segnato da un rigore che quasi mai cede alla spettacolarizzazione degli eventi, il regista di “Respiro” rischia tutto puntando sul piano medio, evitando di cadere in vacui “tornatorismi”, ma anzi parcellizzando lo spazio, reiterando immagini ora asimmetriche, ora composte seguendo le linee geometriche del profilmico, onde produrre quadri nel quadro mai gratuitamente confezionati, essendo il film incentrato sulla convergenza/scontro tra opposti che trovano in tale alternanza “compositiva” la loro configurazione filmica: la presunta razionalità del “nuovo mondo” vs l'”a-razionalità” delle società arcaiche.

Il fatto che la nave non sia mai ripresa in campi lunghi e che la scena potenzialmente più “spettacolare”, quella della tempesta, consista essenzialmente nella collazione di piani ravvicinati dei corpi feriti, accasciati al suolo, dei migranti sono indice di una raggiunta maturità di “sguardo”. La negazione di una visione d’insieme e la proliferazione di dettagli fa il paio con le soluzioni adottate nella descrizione e rappresentazione dei personaggi, che si “dispiegano” nelle immagini senza “spiegarsi” o “essere spiegati” da altri, attraverso i gesti più che le parole. L’evoluzione del rapporto tra la famiglia siciliana e la misteriosa americana passa prevalentemente attraverso lo sguardo. Crialese sottolinea l’importanza del riconoscimento, dell’universalità di quel muto dialogare, addirittura “rompendo” l’equilibrio e la “compostezza” del racconto con segmenti isolati di struggente “verità” (Lucy e Donna Fortunata, sedute sul letto, in silenzio, un fugace scambio di sguardi, la musica che sottolinea l’avvenuta, mutua “comprensione”).

Immagini e racconti dalla e sull’America che alimentano sogni di gloria e invitano al viaggio: galline e ortaggi giganteschi, fiumi di latte, alberi da cui cadono monete. Era sicuramente rischioso ricorrere al simbolo, alla metafora. Proprio perché non posticce o calate dall’alto, ma mediate da un personaggio (di fatto sono immagini mentali del protagonista, letteralmente “sogni ad occhi aperti” condizionati dai racconti e dai fotomontaggi), le parentesi simbolico-oniriche s’innestano perfettamente nel racconto “realistico”, contribuendo ad avvolgere il tutto in una densa aurea mitica, arcana, a-temporale: il viaggio verso l’America diviene così un tragitto simbolico verso un Paradiso ideale, utopico, una sorta di quasi biblica mitopoiesi al di fuori del tempo e della Storia. Il momento fatidico del distacco dalla terra madre è reso con una delle inquadrature più potenti del cinema italiano recente: la nave che si allontana lentamente dal porto, come ad aprire una ferita, una lacerazione intima non rimarginabile.
E’ più di un semplice racconto di emigranti, è forse più legato al tema universale della perdita e dell’abbandono, dell’allontanamento dal ventre materno (poi suggellato dallo straziante addio alla madre nel finale) verso mete “(in)immaginabili” ed invisibili. Da sottolineare, inoltre, “l’aria” musicale che ruota intorno al film, basterebbe solo il fantastico Sinnerman di Nina Simone.

La promessa dell'assassino

La promessa dell’assassino regia di David Cronenberg (2007). Ci troviamo davanti a un vero e proprio noir all’interno del quale sono riscontrabili le caratteristiche cardini del genere: una morte, buoni e cattivi, una ragazza combattiva e (forse) in pericolo, un destino (o forse più) da segnare, il passato che, imperterrito, macchia di sangue il presente. Ed è proprio quest’ultimo tema che ne fa una sorta di corollario di “A History of Violence”, che secondo chi scrive è in assoluto il capolavoro di Cronenberg.

Si parte da passi di diario che fluttuano durante tutto il corso degli eventi. Il versante noir è dunque riconducibile essenzialmente al già vissuto, e gli spettatori si pongono in perenne stato di tensione per eventi di vite passate pronte a macchiare vite future. In questo senso, se mettiamo da parte le sorti del neonato, i personaggi interpretati da Viggo Mortensen e Naomi Watts non assumono ruoli necessariamente di primaria importanza, ma dato che la mafia russa, impersonificazione del male, è un demone non curabile, i loro sforzi appaiono come segnati da una sorte già scritta: il finale, sussurrato, apparentemente buonista e lieto, si staglia sul volto di Nikolai e sembra quasi inchiodarlo in un circolo inesorabilmente macchiato di sangue, che fa sembrare ciò che abbiamo visto fino a quel momento soltanto un passaggio della sua vita, che non potrà che contenere innumerevoli fasi riconducibili a quelle già vissute, in attesa di una morte annunciata.

Il Nikolai di Viggo Mortensen sa di non poter uscire vincitore dalla sua esistenza: è un vinto che vive alla giornata, e quotidianamente lotta affannosamente per uscirne vivo, ed è sotto quest’ottica che la scena della sauna (giustamente già divenuta cult) assume connotati “alti”. E’ come trascrivere la voglia di vita, tra vapori e mattonelle, tra fluttui di sangue e corpi martoriati, nonostante essa abbia assunto ineluttabili connotati amari. E’ la voglia di potersi dire uomo, essere umano e non macchina segnata da tatuaggi che quasi hanno rubato il flusso degli avvenimenti al futuro stesso.

Mortensen (che sarebbe il caso di ammirare in versione originale per apprezzare a dovere i suoi sforzi per riprodurre un credibile accento russo) è meraviglioso nelle quasi impercettibili gamme espressive poste su di un volto che non ha paura di mostrare i segni dell’età, nel recitare con tutto il suo corpo. Uno sforzo non indifferente che, non fosse per la poca credibilità assunta con gli anni dal premio, vorremmo veder premiato con l’Oscar. Ma il resto del cast non è da meno.

Sceneggiato da Steve Knight, già autore del copione di “Piccoli affari sporchi” di Frears, “La promessa dell’assassino” è un film lucido e mai accademico; terribile per come applica quei mutamenti del corpo, tanto cari al regista canadese, in una realtà tragicamente realistica. Nerissimo!

ApocalyptoApocalypto regia di Mel Gibson (2006). La pellicola è ambientata nello Yucatán del 1500 e recitata interamente nella lingua maya yucateca, scelta che ha spinto il regista a scritturare quasi esclusivamente attori locali e non professionisti. A cavallo fra XV e XVI secolo, la civiltà maya presentata in Apocalypto è in forte declino, afflitta da siccità, peste e l’imminente invasione da parte degli occidentali. Per fermare questo processo, le alte cariche delle principali città maya decidono di rastrellare uomini e donne dei piccoli villaggi per offrirli in sacrificio agli dei, nella speranza di ottenere la loro benevolenza.

Un gruppo di guerrieri capeggiato da Occhio Mezzo e Lupo Zero attacca così il villaggio guidato da Cielo di Selce , decimando la popolazione e sequestrando i pochi superstiti. Fra questi ultimi c’è il figlio del capo villaggio Zampa di Giaguaro, che prima del sequestro riesce a nascondere figlio e moglie incinta in una piccola cavità naturale al riparo dagli invasori. Per Zampa di Giaguaro ha così inizio una durissima lotta per la sopravvivenza sua e della sua famiglia.

la citazione di Will Durant apre il film: “Una grande civiltà viene conquistata dall’esterno solo quando si è distrutta dall’interno.” Proprio quest’ultima frase rappresenta non solo un fedele riassunto del Gibson pensiero, ma anche una chiave di volta con cui interpretare e dare profondità a questa crudele avventura sospesa tra tribalismo e spiritualità. La civiltà maya che il regista ci presenta in Apocalypto è infatti una società fortemente corrotta, fiaccata da divisioni interne e afflitta dalla presunzione di essere portatrice della verità e della giustizia.

Il tessuto narrativo di Apocalypto è diviso in tre atti dissimili ma complementari fra loro. A una prima parte dai ritmi più dilatati, volta a introdurre protagonisti e tratti distintivi della loro piccola comunità, fa seguito una fase centrale in cui l’azione si fa più tesa e concitata, basata sulla distruzione del villaggio di Zampa di Giaguaro e sulla presentazione dell’opulenta e devota aristocrazia maya, disposta a sacrificare i propri fratelli più deboli e disagiati per riti e credenze religiose assurde e ingiustificabili persino per l’epoca. Proprio un fenomeno dai sempiterni richiami mistici come un’eclissi di sole segna l’inizio del terzo e ultimo segmento, in cui Apocalypto si trasforma in un vero e proprio action movie ad ambientazione giungla, incentrato sulla disperata e agguerrita lotta per la sopravvivenza del protagonista Zampa di Giaguaro.

Qualcuno parlerà di brutalità gratuita o di ingiustificata spettacolarizzazione dell’aggressività umana, ma per l’autore Gibson l’unico modo di affrontare ed esorcizzare la violenza è quello di mostrarla senza limitazioni e in ogni sua sfumatura, fino a spingersi all’eccesso e al parossismo. Apocalypto è un’opera esasperata e non perfetta, inevitabilmente destinata a polarizzare l’opinione di pubblico e critica, in cui coesistono poesia e disumanità, carnalità e misticismo, massacri e nascite, dolore e incrollabile amore. La conferma della maestria di Mel Gibson dietro la macchina da presa e del suo controverso, contraddittorio ma innegabilmente fascinoso modo di raccontare i lati oscuri dell’animo umano e della nostra società.

Anche se fino alla fine sono stato molto combattuto nell’inserire alcuni film a discapito di altri (es. Il discorso del re, Gone baby gone, uno tra i primi tre film di Jason Bourne, The town, Man on fire).

materiale tratto liberamente dalla rete e recensioni estrapolate dai seguenti siti, il tutto raccordato con alcune mie riflessioni personali.