-nota a margine di un quasi scrittore

Nella comune e quotidiana volontà di esprimerci a sonorità e decibel ci dimentichiamo spesso che la scrittura è la “poesia” del bisogno interiore, l’archetipo del “pensiero silenzioso”. Una sorta di diapason impressionistico al quale tutti prima o poi dobbiamo qualcosa. La scrittura, in qualche modo, simbolizza lo “strumento musicale” intrinsecamente più vicino alla necessità di “non essere voce” e quello indubbiamente più appropriato per la rifinitura di un concetto.

Fin dalle origini abbiamo cercato di dare una “fisionomia” alle nostre percezioni, idee, realtà, per via di quella propensione primitiva di renderle “vive”, e sebbene tutto sia iniziato con la visualizzazione attraverso l’uso della pittura rupestre, nel profondo abbiamo sempre mirato ad una forma di comunicazione che fosse anche più ragionata e immediata delle immagini.

Più in generale la scrittura è un modo che ci trasforma in “artisti”, artefici di un mondo, che vogliamo sia immaginifico e insospettabile, e a cui tendiamo in maniera quasi compulsiva. A parere di chi scrive è forse il più intenso e gratificante interprete della trasmissione connettiva, attraverso la quale non solo giungiamo a rappresentare -e non poche volte a “correggere”- la nostra esistenza ma in qualche modo ne risultiamo capaci.

E dunque appare verosimile vincere la paura dell’ignoto e del diverso, come sembra del tutto naturale pensare a questo mondo come appartenenza, e non solo come misura anagrafica, ma soprattutto per quel compendio di fragranze, connessioni, caratteristiche che lo rendono unico ed irripetibile. Ed è allora che sentiamo di essere i gladiatori meglio attrezzati in questa arena a tratti risibile e senza spalti. Un agone in cui avvertiamo l’esigenza di magnificare, tramandare e memorizzare, senza dimenticare le sofferenze né le avversità proprie di questo cammino.

E tutto perché alla fine siamo l’inchiostro dei nostri passi, delle nostre meravigliose ed impercettibili cose. Siamo o non siamo sempre in bilico tra un verso e un luogo comune, come quando arranchiamo tra le nostre “tele” alla ricerca di quel colore da affidare al tempo. Siamo il gioco leggero di uno spartito, la ridente tenerezza della suggestione, di quell’imperscrutabile mistero che è l’anima, ma soprattutto siamo i cavalieri erranti della parola detta e mai del tutto rivelata, di quella “mistica e spirituale” essenza del comunicare.

Ma siamo anche viaggiatori nella tempesta (per parafrasare un grande artista) o pazzi cercatori d’oro continuamente in lotta per una “vena” da celebrare. Siamo gli artigiani di un disegno più grande di noi, in funzione del quale lottiamo e ci “feriamo” e solo per trovare i pennelli giusti da utilizzare. Siamo i contorni di ogni orizzonte, la caleidoscopica opzione di crederci convintamente cielo ed eternità.

Tuttavia siamo anche gli “artisti” del vento e come tali aria, minuscole particelle di un soffio così lieve da non essere sprecato!

In fondo siamo dei semplici cuori che tentano di volare, novelli Icaro a cui l’altezza non sempre si dispone ad arrivo. Quell’altezza che non tutti conoscono e che solo alcuni raggiungono.

Alla fine siamo quello che siamo, semplici attori di un copione incommensurabile e bellissimo, dove la scena è un guazzabuglio di emozioni e di altre poche cose. In ogni caso stiamo, come guardiani all’ingresso, staccando biglietti che si pagano a dosi di empatia.