La Calabria sembra essere stata creata da un Dio capriccioso che, dopo aver creato diversi mondi, si è divertito a mescolarli insieme. (Guido Piovene)
Per coloro che vogliono conoscere il passato di questa terra, culla della Magna Grecia e terra di antichi insediamenti, la Calabria offre un’ampia scelta fra chiese e monasteri, castelli e palazzi, borghi e luoghi dove sopravvivono usi e tradizioni secolari. Le prime tracce della presenza dell’uomo in Calabria risalgono al Paleolitico come testimoniano i ritrovamenti nelle grotte di Praia a Mare. Secondo il mito il pronipote di Noè, mercante semita ed inventore della barca a remi, giunse tre generazioni dopo il diluvio universale sulle sponde dove è stata fondata Reggio. Più tardi, secondo il mito greco, circa 850 anni prima della guerra di Troia, sarebbero dunque giunti Enotrio e Peucezio originari della Siria che, trovando il suolo molto fertile, chiamarono la regione Ausonia in ricordo dell’Ausonide, fertile zona della Siria. Secondo la leggenda Enotrio avrebbe regnato per 71 anni e alla sua morte gli sarebbe succeduto il figlio Italo, regnando su una popolazione Italòi che occupava la penisola nella zona situata a sud di Catanzaro. Al tempo dei Romani, la regione è stata chiamata Bruttium, dal nome della popolazione dei Bruzi che l’abitava. Poi nel Medioevo prese il nome attuale, grazie all’arrivo dei Calabri dalla Puglia.
La Calabria è una regione ricca di storie e leggende che si tramandano di generazione in generazione. Numerosi i luoghi misteriosi e suggestivi che costellano il territorio. Pochi altri luoghi al mondo possono vantare come la Calabria una storia altrettanto ricca di miti e leggende. Una terra «magica» attraversata da storie di santi, donne, regine, fantasmi, briganti, diavoli, maghe, fate, sirene; personaggi emblematici di una antica regione, che conserva tracce di popoli remoti e diversissimi, dai greci ai Normanni ai Saraceni.
Grotta della Lamia
Si sa ben poco della struttura interna della caverna, è probabile che i corridoi raggiungano il centro abitato di Motta San Giovanni oppure che arrivino fino al letto del fiume. Secondo la testimonianza degli anziani del luogo, la grotta della Lamia comunicava con una vicina grotta, nota come ‘A Ruuta. Come ci si aspetterebbe, intorno a questa teoria ruota un racconto popolare che si tramanda da nonno a nipote. Si racconta di un contadino che vide uno dei suoi maiali scomparire all’interno della grotta, mentre era al pascolo con il suo bestiame proprio nelle vicinanze della Grotta della Lamia. Non riuscendo a trovarlo, ritornò nel proprio capanno rassegnato. Alcuni giorni dopo, mentre era al pascolo in un campo vicino, vide sbucare dal nulla il suo maiale che venne fuori proprio dalla “A vucca da ‘a Ruuta”.
Lamia era una regina vissuta nell’antica Libia, figlia del re Belo e, secondo la leggenda, l’amante segreta di Zeus. Dal loro amore segreto nacquero diversi figli; anzi un’intera dinastia. Era, moglie di Zeus, accecata dall’invidia di quest’amore, si vendicò uccidendo tutti i figli di Lamia, eccetto Sibilla e Scilla. Lamia, stremata dal dolore e dalla disperazione per la morte dei figli, si trasformò in un mostro orribile e a causa del suo aspetto, si rifugiò in una grotta sotterranea. La leggenda narra che la regina, diventata cattiva per il dolore, attirava all’interno della grotta greggi e fanciulli, divorandoli per saziare la sua fame di sangue, trasformando l’ingresso in una vera bocca da cui non vi era via di salvezza. Per questo motivo si dice che alla Grotta della Lamia sia rimasto legato il cuore di Zeus.
La Pietra del Diavolo
Sul monte che sovrasta la cittadina di Palmi, un uomo dal volto nero, con un gran sacco sulle spalle, si presentò al Santo Elia, che se ne stava in solitaria meditazione. L’uomo, che era il diavolo, aprì il sacco e mostrò al Santo una grande quantità di monete, raccontando che aveva trovato l’ingente fortuna in un casolare abbandonato e pensava di poterla dividere col Santo, il quale, invece, prese le monete e cominciò a lanciarle lungo la strada, mentre rotolavano si tramutavano in pietre nere, di quelle che ancora oggi si possono reperire sul monte, insieme ad un macigno con le impronte di unghie lasciate dal diavolo, prima di spiccare il volo per inabissarsi nel mare.
La Colonna bruciata
Nella cattedrale di Reggio Calabria, si trova un cimelio antico e misterioso: è una Colonna bruciata sulla sommità da un pezzo di legno tolto da una fornace. La leggenda racconta che durante il suo viaggio, San Paolo ha fatto tappa a Reggio, trovando la città nel pieno dei festeggiamenti per la dea a cui era dedicato uno splendido tempio posto vicino al mare e che ogni anno era venerata con magnifici riti, danze e sacrifici. Quando l’Apostolo giunse fra la gente raccolta nel tempio, cominciò a predicare il Vangelo, il tempo necessario affinché si consumasse un mozzicone di candela, con grande meraviglia e sbigottimento da parte di tutti. Un pezzetto di candela fu posto sopra una colonna e Paolo cominciò la sua predicazione.
Le sue parole erano tali che presto l’assemblea ne fu conquistata e nessuno si accorse del tempo che passava. Quando la candela si consumò l’intera colonna prese ad ardere rischiarando il volto dell’Apostolo; tutti gridarono al prodigio e presero ad ascoltare le parole di Paolo con grande riverenza.
I cantastorie calabresi
I cantastorie calabresi narrano che c’è stato un tempo in cui la vite era una semplice pianta ornamentale: non produceva né fiori né tanto meno frutti. Venne la primavera e il contadino decise di tagliarla, potandola così energicamente che della verde pianta non rimasero che pochi rami nudi e corti. La vite pianse e un usignolo avendo pietà di lei, cominciò a cantare tanto dolcemente che la vite si sentì via via rinascere e scorrere una linfa nuova; i suoi nodi si gonfiarono, le sue gemme si aprirono. Quando l’usignolo volò via, già gli acini del primo racimolo cominciavano a dorarsi alla luce dell’alba. La vite era diventata una pianta fruttifera. E che pianta! Il suo frutto possedeva la forza delle stelle, la dolcezza del canto dell’usignolo e la luminosa letizia delle notti estive.
La Fata Morgana
Se dovesse capitarvi in una calda giornata estiva, passeggiando sullo splendido lungomare reggino che D’Annunzio definì “il più bel chilometro d’Italia”, di vedere paesi e palazzi della costa siciliana deformarsi e specchiarsi tra cielo e mare, vicini a tal punto da distinguerne gli abitanti, non dovete impressionarvi. Siete solo vittime di un incantesimo. E’proprio lei: la fata Morgana. La leggenda racconta che anche Ruggero I d’Altavilla fu incantato dal sortilegio. Per indurlo a conquistare la Sicilia, con un colpo di bacchetta magica la Fata Morgana gliela fece apparire così vicina da poterla toccare con mano. Ma il re normanno, sdegnato, rifiutò di prendere l’isola con l’inganno, impiegando trent’anni per conquistarla.
La tomba di Alarico (re dei Visigoti)
Cosenza venne detta “l’Atene della Calabria”, per la sua tradizione culturale che affondava le radici nell’Accademia Cosentina nata all’inizio del secolo XVI per merito dell’umanista Aulo Giano Parrasio e frequentata anche dal celebre filosofo Bernardino Telesio. Fondata dai Bruzi in epoca remota, lo storico greco Strabone la descrisse col nome di Consentia (con significato di confluenza, in quanto la città era sorta nel luogo in cui il Busento si congiungeva con il Crati), toponimo che mantenne anche in epoca romana. In età barbarica vi giunse anche Alarico, re dei Visigoti che, carico di bottino dopo aver saccheggiato Roma, voleva passare dalla Calabria in Africa. Giunto però in città, morì improvvisamente di malaria. Pianto da tutto il suo popolo, fu sepolto nel Busento con i suoi tesori, dopo che il fiume venne deviato per scavargli la fossa. La cerimonia d’addio si tenne di notte, alla luce di una quantità infinita di torce, in modo che in seguito fosse a chiunque impossibile riconoscere il luogo della sepoltura. Una volta colmata la fossa, infatti, i Visigoti, ricondussero il fiume nel suo letto primitivo cantando ad una sola voce: “Dormi, o Re, nella tua gloria! . Man romana mai non violi la tua tomba e la memoria!”.
In effetti la tomba di Alarico non venne mai trovata dal 410 d.C.
La leggenda di Alarico e della sua sepoltura nel Busento ha ispirato la poesia di August Graf von Platen Das Grab im Busento (La tomba nel Busento) con una rappresentazione romantica della morte e della sepoltura di Alarico. La poesia è stata tradotta in italiano da Giosuè Carducci.
Cupi a notte canti suonano
da Cosenza su’l Busento,
cupo il fiume gli rimormora
dal suo gorgo sonnolento.
Su e giù pe ‘l fiume passano
e ripassano ombre lente:
Alarico i Goti piangono
il gran morto di lor gente.
L’Aspromonte
Il nome Aspromonte, ben lungi dal trarre origine dalla sua conformazione naturale, deriva dal greco aspros, bianco. Secondo una leggenda la montagna era dimora della Sibilla che aveva anticipato ai reggini la venuta di Gesù Cristo, ma si crede anche che fosse stata scelta come rifugio da San Silvestro papa perseguitato dai Romani, fino a quando non guarì l’imperatore Costantino dalla lebbra. Proprio dopo questo prodigio avvenne la “denominazione di Costantino” storicamente contestata, con la quale l’imperatore lasciava l’impero d’Occidente alla chiesa di Roma, tenendo per sé quella d’Oriente. La montagna fece da sfondo allo scontro tra il re saraceno Agolante e Carlo Magno, evento narrato nella Chanson d’Aspremont il cui autore (anonimo) durante gli anni della preparazione della terza crociata, avrebbe composto l’opera proprio da queste parti. Si da per certo che durante l’inverno del 1190 i soldati di Riccardo Cuor di Leone e di Filippo Augusto, in attesa di partire per la Guerra Santa, avessero ascoltato la Chanson dalla sua viva voce nella città di Messina. Nel corso dei secoli su questi monti avvennero molti fatti rilevanti, e per la particolare conformazione del territorio, come zone praticamente inaccessibili, gole, dirupi e fitta vegetazione, fu rifugio e nascondiglio sicuro per briganti e ogni sorta di fuorilegge.
L’oracolo di Capo Vaticano
A lungo considerato luogo inaccessibile e sacro, Capo Vaticano, con il suo promontorio magico, si affaccia sul mar Tirreno nella provincia calabrese di Vibo Valentia. La magia salta agli occhi già dal nome: Vaticano deriverebbe infatti dal latino Vaticinium, che significa oracolo, responso, a rievocare una leggenda che vuole la punta estrema del promontorio abitata dalla profetessa Manto. A lei si sarebbero rivolti i naviganti prima di avventurarsi tra i vortici di Scilla e Cariddi e lo stesso Ulisse, scampato agli scogli del pericolo, avrebbe chiesto auspici a Manto circa la prosecuzione del suo viaggio. Ricorda le antiche origini di questo mito anche lo scoglio che sta davanti al capo e porta il nome di Mantineo, dal greco Manteuo, dò responsi. Sotto il promontorio si distendono spiagge di sabbia bianca e finissima, lambite da un’acqua cristallina. Tra le spiagge più suggestive Torre Ruffa, teatro di una triste e leggendaria vicenda. Rapita dai Saraceni, la bella e fedele vedova Donna Canfora si sarebbe gettata dalla loro nave al grido: “Le donne di questa terra preferiscono la morte al disonore!”. Proprio per onorarne il sacrificio il mare cangia colore ad ogni ora ad assumere tutte le sfumature dell’azzurro velo che ne cingeva il capo, mentre l’eco delle onde che s’infrangono contro la battigia altro non sarebbe che lo struggente lamento con cui Donna Canfora saluta ogni notte la sua amata terra. Pagine piene d’amore furono invece dedicate a questa terra dal veneto Giuseppe Berto che scelse Capo Vaticano per dimora e definì questo tratto di litorale “Costabella”, molto contribuendo allo sviluppo turistico della zona. Un tempo arido e selvaggio, oggi il promontorio è un giardino incantevole, un affaccio naturale sul mare con una delle viste più sorprendenti sulle isole Eolie.
Morzeddu
Molti anni fa viveva a Catanzaro una giovane donna di nome Chicchina; era nata in una casa arredata di miseria, ma era cresciuta bella quasi per vendicarsi della stessa povertà, che l’aveva mal nutrita per anni. Aveva trovato un giovane marito, che soltanto saltuariamente lavorava da quando in città avevano chiuso i telai che producevano antichi damaschi. La giovane moglie lo aiutava allora a raccogliere sacchi di foglie di gelso, che servivano per nutrire i bachi da seta che ogni famiglia allevava per il fabbisogno delle filande. Avevano trovato casa nel rione Tùvulu, dal nome dell’antico burrone. Era quello il quartiere dei poveri, ma di quei poveri che vestivano e mangiavano da poveri, e i bambini avevano il pallore dei poveri e i piedi nudi, come tutti i poveri del mondo. Lì c’era, e c’è ancora, la fontana di Tuvuleddhu. Mancava poco al Natale e Chicchina, come altre volte, fu chiamata a ripulire il grande cortile, dove venivano macellati gli animali da carne per i bisogni dei Catanzaresi. Portate via le bestie scuoiate e sezionate, rimanevano ammucchiate in un angolo le pelli, che un addetto recapitava alla conceria. Alla donna toccava ripulire lo spiazzo colorato di sangue; poi in una grande cesta raccoglieva le frattaglie scartate, quelle non idonee alla vendita: tutte le budella, dall’intestino crasso a quello cieco, fino al retto. Era sua incombenza trasportarle nella discarica della Fiumarella, ma quella volta con quel carico sostò sull’uscio della sua stamberga. Si liberò dal peso della cesta per bere un sorso d’acqua; si lasciò andare sul gradino di casa per riprendere fiato; diede uno sguardo ai ragazzi, che riposavano ancora e che, a sera, avrebbero seguito, per le strade della città, le zampogne che suonavano la novena di Natale. Chicchina guardò la cesta colma di frattaglie: “Perché – si domandò – i ricchi mangiano la carne e rifiutano soltanto le parti di ciò che sta dentro le bestie? Forse per il contenuto che le budella ancora custodiscono, e devono essere sepolte nella discarica tra le immondizie…?” Allora le venne in mente di farne un piatto utilizzando tutte quelle interiora e lo chiamò morzello, perché è tagliato in piccoli pezzi (in dialetto catanzarese morzha morzha).
San Gregorio il Taumaturgo
Gregorio il Taumaturgo (Neocesarea del Ponto, ca. 213 – ca. 270) si convertì al Cristianesimo a Cesarea di Palestina insieme al fratello Atenodoro, dopo aver ascoltato gli insegnamenti di Origene; è venerato come santo da tutte le chiese che ammettono il culto dei santi. Tornato nella città nativa, vi fu consacrato vescovo e riuscì a convertire quasi tutta la regione. Si racconta che quando fu consacrato vescovo della sua città, non trovò che 17 cristiani; alla sua morte nella città di Neocesarea rimasero solo 17 pagani. Scrisse parecchi libri e intervenne al I Sinodo di Antiochia (264-265) contro Paolo di Samosata. La Chiesa lo venera con il titolo di Taumaturgo, cioè operatore di prodigi, per i molti miracoli compiuti durante la sua vita. Un giorno piantando il suo bastone riuscì a fermare la piena di un fiume che stava rovinando sulla sua città, motivo per il quale viene particolarmente venerato contro le intemperie naturali. Un altro suo miracolo narra di un monte miracolosamente spostatosi al suo comando per poter edificare una chiesa. San Gregorio è ricordato anche come uno dei primi santi ad aver avuto un’apparizione mariana. La Vergine infatti le sarebbe apparsa insieme a San Giovanni Evangelista, per renderlo partecipe di alcune verità di fede in quei tempi tanto insidiate. Le reliquie del santo, giunsero a Stalettì (mio paese natale), centro della provincia di Catanzaro, durante l’iconoclastia nell’VIII secolo, dove sono tutt’ora venerate. La tradizione locale narra che il corpo del santo, gettato in mare in una cassa di piombo, arrivo sulla spiaggia miracolosamente sospinto dalle mani degli angeli.
La leggenda di Scilla e Cariddi
In antichità l’attraversamento della zona di mare dello Stretto, dove delle correnti diverse potevano sballottare il naviglio da una parte o dall’altra e dove la visuale da una terra a l’altra dava la concreta idea del superamento di un confine era veramente pericoloso. Successe così che, per gli antichi marinai, lo stretto di Messina, fosse abitato da due terribili mostri: Scilla e Cariddi.
Sulla punta della Calabria, troviamo Scilla (il significato greco del nome è: colei che dilania). Prima di diventare un mostro marino, Scilla era una ninfa, figlia di Forco e Ceto. Secondo la leggenda, Scilla viveva in Sicilia, ed aveva la passione di andare sulla spiaggia di Zancle e fare il bagno. Una sera, mentre la ninfa era sulla spiaggia, vide apparire dalle onde Glauco, il figlio del dio Poseidone, un dio marino metà uomo e metà pesce. Scilla, terrorizzata alla sua vista, si rifugiò sulla vetta di un monte che si trovava vicino alla spiaggia. Il dio, infatuato dalla visione di Scilla, iniziò ad urlarle il suo amore, ma la ninfa continuò a fuggire, lasciando il poveretto solo con il dolore per un amore non corrisposto. Glauco, senza darsi per vinto, andò all’isola di Eea dove aveva dimora la maga Circe chiedendole un filtro d’amore. Circe, innamorata del giovane dio, gli propose di lasciar perdere ed accettare invece il suo amore. Glauco si rifiutò, confermando il suo amore per Scilla. Circe, furiosa per essere stata respinta, decise di vendicarsi sulla giovane ninfa. Quando Glauco fu lontano, la maga preparò una pozione per vendicarsi dell’affronto subito e si recò presso la spiaggia di Zancle, senza essere vista, versò il filtro in mare e ritornò alla sua dimora. Scilla arrivò sulla spiaggia per fare un bagno. Appena entrata nell’acqua vide crescere intorno a sé delle mostruose teste di cani. Spaventata fuggì al largo, ma si accorse che i cani la seguivano dato che erano il frutto del filtro di Circe. Si rese conto allora che sino al bacino era ancora una ninfa ma al posto delle gambe, attaccati al resto del corpo con un collo serpentino, spuntavano sei musi feroci di cani. Per l’orrore Scilla andò a vivere nella cavità di uno scoglio che da lei prese il nome. Cariddi (dal greco: colei che risucchia) nella mitologia greca era un mostro marino che prima beveva enormi quantità di acqua e poi le sputava. Secondo la leggenda, Cariddi, era figlia di Poseidone, dio del mare e Gea dea della terra.
Cariddi faceva delle rapine ed era famosa soprattutto per la sua ingordigia. Un giorno, la giovane ladra, rubò ad Eracle i buoi di Gerione per mangiarne qualcuno. Zeus, per punirla del saccheggio, la fulminò facendola cadere in mare. Per mantenerla in vita, Cariddi venne trasformata in un mostro che formava un vortice marino, così potente da inghiottire le navi, per poi risputarne i resti, che passavano vicino a lei. La leggenda pone la tana del mostro presso uno dei due lati dello stretto di Messina, di fronte all’antro del mostro Scilla. Le navi che passavano per lo stretto di Messina, così, erano obbligate a passare vicino ad uno dei due mostri. Nella realtà, in quel tratto di mare si trovano davvero vortici potenti causati dall’incontro delle correnti marine. Se al giorno d’oggi si volesse visitare il nascondiglio di Cariddi, dovrebbe andare sulla punta messinese della Sicilia, a Capo Peloro. Cariddi è menzionata anche nel canto XII dell’Odissea di Omero, in cui si narra che Ulisse preferì affrontare Scilla, per paura di perdere la nave passando vicino al gorgo. Anche Virgilio nella sua Eneide, fa menzione dei due mostri.
Pietra Kappa in Aspromonte
Una leggenda legata a Gesù ed agli apostoli aleggia in prossimità di un monolite ai piedi dell’Aspromonte. Si narra che Gesù camminava insieme ai suoi apostoli e ad un certo punto avvertirono un senso di fame. Gesù propose di fare una penitenza, invitando gli apostoli a prendere una pietra ed a portarla fin su in montagna. Tutti gli apostoli presero pietre abbastanza pesanti e si incamminarono verso la vetta. Solo Pietro prese un piccolo ciottolo e si avviò. Arrivati in cima le pietre si trasformarono in pane e mentre gli altri apostoli si ritrovarono con delle belle pagnotte, Pietro si dovette accontentare di un misero pezzo di pane, grande quanto il ciottolo che aveva trasportato. Per ricordare l’episodio Pietro chiese a Gesù di lasciare lì quella pietra e sfiorandola essa diventò gigante, al punto da ricoprire tutto il terreno circostante. Successivamente Pietro decide di imprigionare in quel masso la guardia che schiaffeggiò Gesù al Sinedrio. La leggenda narra che la guardia sia stata condannata a schiaffeggiare le pareti della roccia e che chiunque passi da lì sente i suoi lamenti e le sue grida.
I Capuleti e i Montecchi di Catanzaro
La storia si pone fra la fine degli anni 1830 – 1840 a cavallo del periodo storico carbonaro-rivoluzionario ed ha in comune alcuni tratti melodrammatici del racconto e delle vicissitudini di Romeo e Giulietta decantata dal grande William Shakespeare; con una differenza: quest’ultima è il frutto della fantasia del poeta, mentre questo racconto è vera storia. Due giovani, appartenenti all’aristocrazia catanzarese e a due famiglie fra le più note della città s’innamorarono. Lei, Adele, figlia del marchese De Nobili (già deceduto al tempo del nostro racconto) era appena ventenne e viveva nel suo palazzo (Palazzo De Nobili, appunto, oggi sede del Municipio) insieme alla madre e ai suoi tre fratelli. Lui era Saverio Marincola, figlio dell’omonima casata nobiliare. I due s’incontravano furtivamente in quanto la loro relazione era osteggiata dalle due famiglie che erano divise anche per le loro tendenze politiche: l’una, la famiglia De Nobili, fedele al governo borbonico, l’altra, i Marincola, progressista e rivoluzionaria, appoggiava la politica indipendentista carbonara. Saverio, ogni sera incontrava Adele sotto la sua finestra (l’ultima finestra a destra della facciata anteriore di Palazzo De Nobili) e qui i due con la paura di essere scoperti dai fratelli di lei, si lanciano baci e promesse d’amore. Ma, una sera, il maggiore dei fratelli di Adele si accorge della tresca, apre il portone principale del palazzo ed affronta a duello Saverio; quest’ultimo si difende ma poi riesce a fuggire, incalzato non solo dal maggiore, ma anche dagli altri due fratelli della fanciulla. Ad Adele, che viene reclusa nella sua stanza, ma il Marincola escogita un piano per poterla rivedere, facendo in modo che ella non rischiasse di farsi scoprire. Saverio arrivava la sera sotto Palazzo De Nobili in sella al suo cavallo, i cui zoccoli erano ferrati d’argento in modo tale che il suono emesso durante il galoppo fosse diverso da quello degli altri cavalli che normalmente avevano gli zoccoli in ferro. Quel suono, per Adele, era un segnale, ed ella si affacciava alla sua finestra per rivedere e salutare l’amato.
Una sera, intorno alle ore 21.00, il Marincola, provenendo dalla zona di Catanzaro Lido, dove si era recato ad ispezionare alcuni latifondi, viene appostato, nei pressi della salita di rione Samà, e fermato da alcuni colpi di carabina che alcuni sconosciuti gli sparano contro: soccorso da alcuni presenti, morirà dopo due ore. Alla notizia della morte di Saverio, Adele si rinchiude nel suo dolore. Non mangia, non dorme, non vuole vedere nessuno. La magistratura indaga e scopre i colpevoli: sono i fratelli di Adele. I tre fratelli De Nobili fuggono nottetempo salpando verso l’isola di Corfù. Adele, affranta, lascia il palazzo, arriva in carrozza fino a Pizzo Calabro e qui s’imbarca per Napoli dove viene accolta nel Convento delle “Murate Vive”. E’ qui, divenuta suora, che trascorrerà il resto della sua vita. Intanto i fratelli, dall’isola di Corfù, condannati in contumacia, fanno sapere che, se il loro reato fosse perdonato, potrebbero rivelare alle autorità di una certa operazione rivoluzionaria che, dall’isola di Corfù, sarebbe approdata sulle coste calabresi per tentare di far insorgere gli animi al patriottismo, contro i Borboni. Questa spedizione, in effetti, era capitanata da due fratelli che, ufficiali nella Marina Austriaca, nel 1841 disertarono per la causa dell’unità e libertà d’Italia e fondarono la società segreta “Esperia”, affiliata nel 1842 alla Giovine Italia di Mazzini. I due fratelli erano i famosi Attilio ed Enrico Bandiera che sbarcarono in Calabria per fomentare una sollevazione ed, appunto, furono traditi e fucilati il 25 luglio 1844 a Cosenza per la delazione dei fratelli De Nobili. In conseguenza alla loro delazione, i fratelli De Nobili, furono prosciolti dalla condanna di omicidio e fu permesso loro di rientrare in Calabria. Il più piccolo di loro cercò di farsi perdonare dalla sorella ed andò a trovarla a Napoli pur sapendo che era difficile vederla ma, ella rifiutò risolutamente di incontrarlo. Adele si considerava morta per il mondo intero e non avendo il coraggio di uccidersi, aveva deciso, pur soffrendo enormemente, di essere per sempre il simbolo del rimorso per i fratelli che si erano macchiate le mani di sangue.
La prima Italia
“Secondo i dotti un certo Italòs diventò re degli Enotri e da lui prese la denominazione di Italia tutta quella penisola d’Europa compresa tra i golfi Scilletino e Lametico, che distano fra loro mezza giornata di viaggio. Dicono pure che questo Italòs fece contadini gli Enotri che erano nomadi e dette loro altre leggi” Aristotele
Con queste parole Aristotele tramanda l’origine della denominazione di Italia. La prima “Italia” è dunque quella parte estrema e stretta della Penisola chiusa a nord dall’Istmo fra i golfi di Squillace e di S. Eufemia. In questa fascia di terra è possibile, attraverso la navigazione di due fiumi, il Corace e l’Amato, passare dal Mar Jonio al Mar Tirreno. La prima “Italia” rappresenta, dunque, il luogo dove Oriente e Occidente si incontrano attraverso un ponte di terra, aperto sullo Jonio alle rotte dell’Egeo e sul Tirreno alla navigazione verso i mari di Occidente, fino ai confini del mondo conosciuto.
La tradizione mitica: Ulisse nei mari d’Occidente
Le origini delle città della Magna Grecia in terra calabra affondano le loro radici nel cuore stesso della tradizione mitica. Dei ed eroi intervengono nella loro fondazione, guidano il cammino dei guerrieri nelle rotte del Mediterraneo. Il linguaggio del mito racconta il lento cammino dell’uomo verso la conoscenza geografica di nuove terre e di nuovi popoli. Primo fra tutti fu l’epòs di Omero a dare forma poetica alle esplorazioni degli Elleni nel Mediterraneo Occidentale e già nel primo canto dell’Odissea di può leggere il nome di una città greca di Calabria: Temesa. Ancora nell’Odissea, nei racconti di Ulisse alla corte di Alcinoo, re dei Feaci, si possono ripercorrere le tappe di una geografia mitica della Calabria. A seguire il filo di questa colonizzazione leggendaria sulle coste calabresi, fanno guida i nostoi, ovvero i ritorni, racconti e poemi delle avventure vissute nei mari da eroi greci e troiani dopo la caduta di Troia alla ricerca di un approdo, di una nuova terra.
A Temesa approdarono i discendenti di Naubalo; Menesteo, compagno di Ulisse, si fermò alla foce del Corace e fondò Skylletion. L”Iliade, l’Odissea, i viaggi degli Argonauti, la leggenda di Giasone fanno ripercorrere le tappe della storia stessa dell’umanità e aiutano ad identificare gli elementi di una verità storica che ogni mito nasconde. Leggere fra le righe di queste leggende significa scoprire che molta di questa storia si è svolta nei mari calabresi, in quelle città che faticosamente gli archeologi stanno riportando alla luce.
Il mito di Ulisse a Tiriolo
Nel libro Ulisse in Italia – Sicilia e Calabria negli occhi di Omero, pubblicato negli anni ’60 in lingua tedesca e recentemente anche in italiano, lo studioso Armin Wolf ricostruisce le tappe di Ulisse seguendo i venti e le carte nautiche. Come può Ulisse raggiungere Itaca dopo aver trascorso sette anni con la ninfa Calipso sull’Isola di Ogigia, probabilmente una delle Isole Eolie, senza ripassare dallo Stretto di Messina? Armin Wolf nella sua teoria identifica la Terra dei Feaci, Scherìa, con l’Istmo di Catanzaro. Scherìa viene descritta nell’Odissea da Omero come uno scudo in mezzo all’oceano.
Coi primi raggi mattutini i foschi
Monti apparir della feacia terra,
Quasi uno scudo in mezzo all’oceàno.
Osservando la Calabria dall’alto, le insenature dell’Istmo di Catanzaro somigliano agli scudi dipylon, oltre ad essere il punto più stretto della Calabria e dell’Italia rendendola facilmente attraversabile. Secondo la teoria di Armin Wolf, Ulisse sarebbe naufragato con la sua zattera nel Golfo di Sant’Eufemia e avrebbe incontrato la principessa Nausicaa nei pressi dei lavatoi di Marcellinara. Tiriolo, per la sua posizione dominante, sarebbe stata la Residenza del Re Alcinoo, il quale dopo averlo ospitato, lo avrebbe aiutato a tornare a Itaca concedendogli una delle sue navi ripartendo dal Golfo di Squillace.
Le notizie utilizzate per lo sviluppo del presente articolo sono state reperite liberamente su internet e in particolare da
Complimenti, io ho appena scritto un libro sulla Calabria, ma la lettura del tuo articolo mi ha affascinato.
"Mi piace"Piace a 1 persona
grazie!
"Mi piace""Mi piace"
Detto fatto ( tu ) come da stimoli di quel geniaccio di lapinsu.
Io leggerò a tappe. Come il lungo viaggio per arrivare tra i mille -tutt’ ora ancora 16 – ‘lavori in corso’ della Salerno Reggio Calabria.
sherabuonagiornatadipioggia
"Mi piace"Piace a 1 persona
Detto fatto ( tu ) come da stimoli di quel geniaccio di lapinsu.
Io leggerò a tappe.
sherabuonagiornatadipioggia
"Mi piace"Piace a 1 persona
ahahahah, già, proprio così, un articolo è nato da una chiacchierata sul suo blog! Ma era del tutto scontato che prima poi ne facessi uno
Fai pure con calma.
Tra poco mi sa che arriverà la pioggia anche qui da me.
Ciao
p.s. mia figlia è appena rientrata da Roma dopo una settimana in giro con i suoi amici, hanno trovato tempo splendido e una città che sa ancora affascinare, nonostante tutto!
"Mi piace""Mi piace"
Giornate di sole splendido come ieri alternate a pioggia.
E tu quando?
"Mi piace"Piace a 1 persona
appena mi sarà possibile devo organizzarmi un viaggio. E’ da un po’ che manco da Roma, un sacco di amici da rivedere e la magia di una città unica da “sentire”. Ti farò sapere 🙂
"Mi piace""Mi piace"
Grazie per questo interessantissimo post rigurdo una meravigliosa regione. 65Luna
"Mi piace"Piace a 1 persona
grazie a te 🙂
"Mi piace"Piace a 1 persona
Caro Rosario, ho letto solo una parte del tuo bell’apporto e già sento di dovermene complimentare…
Andai in Calabria due volte.
Hai reso un grande servigio a questa regione straordinaria e maltrattata alla quale dobbiamo la fondazione della gettonata Paestum.
Buona giornata!
"Mi piace"Piace a 1 persona
essendo la mia terra dedicarle un articolo era il minimo!
Una terra che amo.
Grazie Marzia
"Mi piace"Piace a 1 persona
🙂
"Mi piace"Piace a 1 persona
mai visto una terra tanto bella e aspra e così stuprata, specie sulle coste. Tanto che le dedicai un aforisma pensandola: “La Calabria è un posto talmente dimenticato da Dio e dagli uomini che persino radio Maria si prende male.”
"Mi piace"Piace a 1 persona
proprio così caro Flavio, una terra aspra e selvaggia che comunque saprebbe essere la più dolce delle mamme se non fosse che alcuni suoi figli non sappiano -probabilmente lo sanno benissimo- far altro che trattarla esattamente come una puttana (scusami l’eufemismo, ma sono alquanto arrabbiato).
Il tuo aforisma racchiude una grande verità.
Ciao e grazie
"Mi piace""Mi piace"
Anni fa sono stata sia in Calabria che in Puglia, e ancora oggi ricordo il calore, la gentilezza, la simpatia della gente… Abitando io nel Trentino, dove sono più chiusi e scontrosi, mi sembrava di essere in un altro mondo. Per non parlare del mare, incantevole… Bell’articolo il tuo, ricco di curiosità.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Grazie Alessandra, pensa che io vivo a Trieste e sebbene sia una città in cui ho conosciuto un nuovo tempo (lavoro e famiglia in primis) e alla fine abbia imparato ad amarla, ancora non riesce a trasmettermi quel calore di cui parli.
Spesso la mia mente accorcia -quasi eliminandole- le distanze in un amarcord che mi emoziona come allora. A volte la sento proprio come una necessità fisiologica.
Ciao
"Mi piace"Piace a 1 persona
Un Viaggio nella storia tra miti e leggende e paesaggi di una bellezza inaudita . Peccato , che come tu stesso dici, la calabria sia ricordata per i misfatti dei malavitosi. Grazie per questo viaggio !
"Mi piace"Piace a 1 persona
grazie a te carissima, è veramente un peccato che venga menzionata solo per fatti che ne deturpano la bellezza.
Ciao
"Mi piace""Mi piace"
Forse nel Sud c’è come un senso di imminente disastro, un fatalismo prepotente per cui le cose non possono che stare così…sempre cadenti e mai cadute. E questo stare nell’abbandono di un quasi disastro è una sacralità e una condanna..
È la postura di una pietra dopo un terremoto.
Manca anche a me..ci ho vissuto una vita.
"Mi piace"Piace a 1 persona
bellissima chiusa in raccordo al mio articolo. Struggente!
Condivido in pieno il tuo pensiero. Ciao e grazie
"Mi piace""Mi piace"
come sempre molto esaustive le tue ricerche, la Calabria è una Regione che ho visto solo di sfuggita, un anno mi prometto di venire a visitarla al meglio, merita davvero, ho visto parecchi documentari legati a questa terra dalle mille sorprese, e anche questo tuo post ne è la conferma. (:-))
Buona giornata.
"Mi piace"Piace a 1 persona
bene allora sei pronto per il viaggio 🙂
ciao
"Mi piace""Mi piace"
che meraviglia! una terra tutta scoprire…. devo assolutamente andarci!
"Mi piace"Piace a 1 persona
già, una terra antica e bellissima, aspra e cortese, peccato che gli “onori” siano solo per malaffare e ndrangheta! Una terra in cui ancora è possibile avvicinarsi alle tradizioni più genuine, alla storia, ai miti di un’epoca classica che ancora vive. Una terra che purtroppo continua ad essere violentata fin dentro l’anima, fin dentro la più intima dignità. Una terra che mi vive addosso sebbene da molto tempo ho dovuto barattarla con un posto di lavoro. Una terra che ancora mi parla e mi riempie di odori e sapori, un luogo che non è solo un punto geografico ma che mi lega in un unicum incardinato nella mente e nel cuore.
Ciao e grazie
"Mi piace"Piace a 2 people
Una terra di gente generosa, dove fortunatamente ho amici cari, già te lo scrissi.
In quanto alla bellezza , come si può negarla? Peccato solo che non venga valorizzata come dovrebbe essere.
Devo ritornarci se potrò e la guarderò con i tuoi occhi e ricorderò i tuoi scritti. Quelli legati sentimentalmente alla tua terra e quelli dai quali ho tratto notizie interessanti.
Affettuosamente, come scrivo sempre ai miei amici calabresi, alcuni proprio della tua zona. ❤
"Mi piace"Piace a 1 persona
sono felice di queste tue parole cara Laura, non immagini quanto!
Ti abbraccio
"Mi piace""Mi piace"
Il tuo amore traspare in modo netto e vibrante dalle tue parole…
"Mi piace"Piace a 1 persona
già, non potrebbe essere diversamente. Ciao cara Pina
"Mi piace"Piace a 1 persona