Un altro articolo musicale di non facile “degustazione” questo sui Dead Can Dance, ma vi assicuro che chi arriverà alla fine non se ne pentirà. Un’altra pagina molto particolare e assolutamente fuori dagli schemi nel panorama sempre più “piatto” e allineato dell’universo musicale, una pagina che in qualche modo segna una nuova “impressione” ruotando intorno all’essenza della musica come rapporto umano e per alcuni versi spirituale. Una ricerca interiore, fatta di studio e sperimentazione, prima ancora che impianto sonoro vero e proprio. Anche in questo caso forse una necessità di trovare altre strade o “chiavi” per sentirsi in armonia -o almeno provarci- con le emozioni. Un gruppo con una stilistica dalle atmosfere crepuscolari e arcane che, facendo perno sui vocalizzi eterei, adatta la musica da camera in chiave rock, inserendovi riferimenti alla musica gotica, rinascimentale, esotica e medievale. Quindi preparatevi per un altro “sguardo” abbastanza divergente 😉 . Buon ascolto!
Dead Can Dance è il più importante e influente progetto di quella corrente “gotica” e “atmosferica” che nacque come costola della “dark-wave” a partire dai primi anni ottanta: nessun altro gruppo, in questo campo, ha saputo arrivare a risultati di portata tanto ampia. Dead Can Dance è un progetto culturale, ancora prima che musicale, volto alla (ri)scoperta di tradizioni antiche, lontanissime nel tempo e nello spazio.
La loro saga ha esplorato epoche e ambientazioni diversissime, evolvendosi in uno studio meticoloso sulla tradizione folk europea, con particolare predilezione per i temi medievali e rinascimentali (che ha dato il via al ricchissimo filone del “gothic” ambientale e cameristico capitanato da gruppi come i Black Tape For A Blue Girl), riscoprendo da un lato la musica sacra, dall’altro la musica tribale (e ponendo nuove basi per il rilancio della world-music), mantenendo sempre una rigorosa coerenza stilistica, e al tempo stesso allontanandosi sempre di più dai canoni della musica rock.
I Dead Can Dance nascono nel 1981 a Melbourne, Australia: il gruppo è inizialmente formato da Brendan Perry (voce, synth e chitarra), Simon Monroe (basso), Paul Erikson (tastiere e percussioni) più la vocalist Lisa Gerrard. In effetti il gruppo è nato proprio grazie all’incontro, avvenuto nel 1979, tra Gerrard (che studiava canto classico) e Perry (che fino a quel momento era cantante e chitarrista della punk-band The Scavengers, poi abbandonata per dilettarsi in esperimenti di musica elettronica). Così la cantante ricorda i loro esordi:
“Il primo brano che improvvisammo si chiamava ‘Frontier’. Quel giorno successe qualcosa di magico. Capimmo che tutto quanto avevamo fatto prima, da soli, non era assolutamente paragonabile. Si sbloccò qualcosa che nessuno di noi avrebbe immaginato; dovevamo ripetere quell’esperienza, per questo cominciammo a scrivere insieme”.
Ma è in Inghilterra che la loro musica li rivelerà come un punto di riferimento obbligato per tutta l’estetica dark. Perry e Gerrard vi si trasferiscono nel 1982, diventando a tutti gli effetti gli unici titolari della sigla Dead Can Dance e firmando per la 4AD di Ivo Watts-Russell. A Londra, terra più congeniale alle loro tenebrose atmosfere, i Dead Can Dance mostrano subito quella che è la loro peculiarità rispetto al movimento dark di Bauhaus, The Cure, Joy Division, Siouxsie and The Banshees. La loro opera si caratterizza per un gusto spiccato per arrangiamenti spettrali, eleganti e atmosferici, e per il canto – più caldo e baritonale quello di Perry, più luminoso ed etereo quello di Gerrard. La loro dote maggiore è la capacità di costruire un clima di suspence, che prende lo spunto da un gothic di stampo classicheggiante e medievale, per spaziare via via verso la religiosità, l’arcaico, l’esotico e il folk.
Nel 1984, il primo album Dead Can Dance, seguito a ruota dall’Ep “Garden Of Arcane Delights”, li fece subito accostare ai Cocteau Twins per le divagazioni eteree e sognanti. Ma in realtà la loro musica degli esordi discendeva soprattutto dal punk gotico di Siouxsie e dei Joy Division. Alle atmosfere da rituale occulto della “regina della notte”, i Dead Can Dance univano però un senso di angosciata spiritualità, che si sviluppava attraverso salmi religiosi, litanie ed echi d’oltretomba. Un esempio di questa perfetta simbiosi è la splendida “In Power We Entrust The Love Advocated” (ripresa poi dagli olandesi Gathering).
Ma se le raffinate ballad cantate da Perry (spicca “Wild in the Woods”), ancora non si discostano troppo dai canoni della dark-wave, sono gli impressionanti melismi di Gerrard, voce dall’estensione sovrumana, a caratterizzare i brani più originali e indimenticabili: la nervosa “Ocean” e la rarefazione assoluta di “Musica Eterna”. A partire dal secondo album, “Spleen And Ideal” (1985), Perry decide di puntare su arrangiamenti para-sinfonici di fiati, percussioni e archi, mentre i vocalizzi di Lisa Gerrard si fanno sempre più onirici e suggestivi. Domina sempre un senso di misticismo, tra mantra tibetani, cori che riecheggiano all’infinito e ritmi tribali. Le diversissime impostazioni dei due sono amalgamate alla perfezione: Perry centra il primo vero capolavoro della sua arte di filosofico cantautore “da camera” con la meravigliosa marcia “Enigma Of The Absolute”; e Gerrard, con brani come “Mesmerism” e “Avatar”, porta sempre più in alto la strepitosa potenza visionaria del suo canto. L’album raggiunge il secondo posto nelle classifiche indipendenti inglesi. E, insieme ai “cugini” Cocteau Twins, i Dead Can Dance diventano il vero simbolo dello “stile 4AD”.
Enfatizzando la propensione “cameristica” degli arrangiamenti, “Within The Realm Of A Dying Sun” (1986) segna un vero traguardo formale. È anche il loro disco “gotico” per eccellenza, il più esoterico e misterioso della loro carriera. Otto brani, che i due si spartiscono equamente. I primi quattro, quelli di Perry, sono straordinari “studi” sul contrappunto, orchestrati per ensemble da camera di dieci musicisti, stesi su tappeti elettronici “ambientali”, scanditi dai rintocchi delle tastiere. Il contributo di ogni strumento è calcolato millimetricamente e perfettamente incastonato nell’insieme, allo scopo di ottenere una musica solenne e maestosa, ma anche fluida, naturale, scorrevole ed elegante. Lo strumentale “Windfall” e la lunga, magica narrazione di “Xavier”, sono i brani-simbolo di tanto splendore stilistico. La seconda metà dell’album, centrata sugli esperimenti canori di Lisa Gerrard, culmina nella danza orientale di “Cantara”.
L’album della maturità arriva però nel 1988, con “The Serpent’s Egg”. Al confine tra il nascente “ambient gothic”, la più antica tradizione folk europea e la musica medievale, l’opera è all’insegna di una spiritualità allucinata, di un misticismo ancestrale che si traduce in arrangiamenti scarni e austeri. L’iniziale “The Host Of Seraphim”, è forse il capolavoro personale di Gerrard; ma spiccano anche pezzi come “Mother Tongue”, fantasioso collage di world-music tribale e rituale, e la fiaba magica di “The Writing On My Father’s Hand”. Perry invece centra quelle che forse sono le sue ballate esistenziali più belle di sempre, a partire da quello strepitoso incantesimo che è “Severance” (anni dopo splendidamente re-interpretata dai Bauhaus, fino al desolato esistenzialismo di “In The Kingdom Of Blind” e alla sognante, quasi irreale, ballata folk di “Ullyses”.
Splendidi sono anche i suoi testi, sempre forbiti e complessi, spesso ispirati a leggende popolari (è il caso di “Ullyses” o di “Xavier” dal precedente album). L’intesa tra i due è al culmine:
“Registriamo dischi perché abbiamo molti demoni da esorcizzare – raccontano – traiamo diletto dalla natura terapeutica del fare musica ed è attraverso questo godimento che vogliamo esprimere quella gioia e comunicarla alla gente. E la nostra fonte più grande di terapia, ed il nostro più grande mezzo di espressione”.
Seguiranno altri passaggi significativi, come l’album “Aion” (1990) – excursus medievale e rinascimentale suonato con strumenti d’epoca e cantato in lingue antiche, vero punto d’arrivo “concettuale” della loro ricerca, che presenta uno dei loro gioielli più splendenti, il delicato madrigale “The Promised Womb” – e “Into The Labyrinth” (1993).
Quest’ultimo è il risultato di una curiosa “preparazione”: Brendan Perry vive su un’isola in un fiume al confine tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda Settentrionale; Lisa Gerrard vive nelle montagne dello Snow River in Australia.
“E’ un viaggio attraverso un anno di scrittura, basato sulla vita in campagna con gente rurale – racconta Perry -. C’è un amore per la musica naturale, primitiva del mondo, un amore per cose che suonino veramente naturali: un canto d’uccello, un bosco”.
In seguito, arriverà il disco live “Towards The Within”, in cui la band ha l’opportunità di manifestare le sue particolari attitudini per i concerti:
“Dal vivo – racconta Lisa Gerrard – non prendiamo molto dai nostri dischi. Abbiamo un sistema in cui introduciamo strutture nodali che permettono improvvisazioni, seguendo un approccio melodico. Puoi raggiungere ‘pericolosamente’ alcuni bei momenti musicali attraverso questo procedimento”.
Nel frattempo Lisa Gerrard si dedica anche a un’attività solista e incide “The Mirror Pool” (1995), arricchito dalle percussioni di Pieter Bourke. Sempre enigmatica, lontana dalle luci della ribalta del rock, la chanteuse australiana non rinuncia mai alla meditazione:
“Gli attimi di silenzio sono fondamentali quando lavori. Hai bisogno di pause, di non sentire nulla, di riflettere su ciò che hai fatto. Altrimenti il rapporto con il tuo lavoro rischia di subire un trauma”.
Musicalmente, i Dead Can Dance virano sempre più verso sentieri etnici: il background celtico viene contaminato da influenze arabe, persiane, cinesi e dall’uso di nuovi strumenti, tra cui il “bouzoki” e altre percussioni esotiche. Un discorso che sarà approfondito in Spiritchaser, sempre più all’insegna del folk “transglobale” (musica indiana, latino-americana, africana, pellerossa, caraibica). Ma l’album, quantomai ambizioso, denota qua e là segni di stanchezza. Così Gerrard prosegue la sua strada registrando Duality (1998), omaggio alla musica aramaica del medioevo, in cui la vocalist australiana non rinuncia ai suoi gorgheggi anarchici, che mescolano canto gregoriano, folk celtico e danze medievali, ma si concede anche per la prima volta alla lingua inglese. Le strade del duo sono ormai divaricate: Perry è diventato sempre più un direttore d’orchestra rock di stampo neo-classico, Gerrard, con le sue divagazioni etnico-religiose, una sperimentatrice del canto “libero”, sulle orme di Enya e di Meredith Monk. Così nel 1998 la band si scioglie.
“Eravamo tutti cresciuti oltre i limiti del nostro lavoro comune”, racconterà poi Perry. La sintesi migliore del repertorio della formazione di Melbourne resterà A Passage In Time (1991), l’antologia dove sono stati raccolti alcuni dei loro brani più significativi, da “Saltarello” a “The Writing On My Father’s Hand”, da “Ullyses” a “Cantara”.
Ma chi pensava che Brendan Perry da solo non sarebbe riuscito a ripetere le audaci imprese dei Dead Can Dance si sbagliava. Il suo album solista “Eye Of The Hunter” (1999) è infatti un piccolo gioiello di cantautorato di fine secolo. In 42 minuti, infatti, Perry scorre con gli occhi di oggi il “canzoniere” confessionale di Tom Waits e di Leonard Cohen, di Tim Buckley e di Nick Cave. Eppure riesce a non essere mai troppo confidenziale. Anzi, appare rigido e teso, a testimonianza di una personalità difficile, che solo di recente è uscita allo scoperto: “E’ esaltante essere gratificato e raccogliere ciò che proviene dai miei soli meriti”, ha rivelato. Nel frattempo, Lisa Gerrard si dedicava con successo ad alcune colonne sonore importanti per film come “Insider” e “Il Gladiatore” (diretto da Ridley Scott e premiato con l’Oscar).
Nel 2012, quasi a sorpresa, Perry e Gerrard annunciano un’insperata reunion, coronata da un tour mondiale e da un nuovo album in studio. “Anastasis” arriva ad agosto dello stesso anno ed è un ritorno in grandissimo stile: c’è l’etnico di “Spiritchaser”, c’è la poetica di “Into The Labyrinth”, ma c’è anche una forza espressiva matura e per certi versi nuova. L’indizio regalato da “Amnesia” è già significativo della magniloquenza che pervade l’album: l’ugola di Perry, intatta e ancor più profonda, guida alla scoperta del nuovo universo sonoro prettamente “mediterraneo” come suggerito anche dall’omaggio all’Antica Grecia del titolo. Addentrandosi nei meandri del disco, sgorgano da subito un’atmosfera di filosofica riflessione “estiva” (la maestosa sinfonia di “Children Of The Sun”) cupi arabeschi dove protagoniste sono le evocative vocals di Gerrard (“Anabasis”) e tracce di quel sentore medievale esplorato e sviluppato in Aion (“Kiko”). Tratti somatici orientaleggianti caratterizzano invece “Agape”, mentre la Gerrard armonica e multiforme fa la sua comparsa nell’eterea marcia liturgica in duetto di “Return Of The She-King”.
A concludere, ci pensano il romantico miscellaneo di “Opium”, frondata da sprazzi di archi solenni e, soprattutto, il superbo congedo di “All In Good Time”, con la voce di Perry praticamente sola a cullare i sensi sino al formidabile unisono strumentale del finale. La “resurrezione” (questa la traduzione dal greco del titolo dell’album) dei Dead Can Dance non poteva essere più lucente: “Anastasis” è disco legato strettamente ai loro trascorsi ma mai autoreferenziale, l’album maturo di un duo il cui suono trae le sue coordinate da stili senza tempo, tanto quanto pare esserlo la loro musica.
A conferma di una nuova stagione di creatività per entrambi i membri dei Dead Can Dance, due anni dopo “Anastasis” arriva “Twilight Kingdom”, nuovo capitolo solista per Lisa Gerrard, che vede essenzialmente la Nostra come nome principale, anche se si riconoscono voci differenti nei pezzi cantati in maniera più lineare, ossia “Estelita”, uno tra i più riusciti, “Too Far Gone” e forse anche in “Seven Seas”: contributi decisamente azzeccati che hanno un tocco lieve, dolce e leggermente malinconico.
La Gerrard si rifà esplicitamente alle atmosfere al periodo Dcd, come “Serpent’s Egg” o “Into The Labyrinth” (a partire dalla copertina particolarmente adatta ed evocativa) anche se manca la ricca varietà a cui il duo ci aveva abituati, a favore di una concentrazione su territori meno etnici e più eterei. Infatti la voce della cantante torna ai vocalizzi senza parole, o meglio in lingua personale e trascendente, una glossolalia fuori dalla comprensione se non quella dettata dall’istinto, che sembra guidarci lungo il percorso di questo regno del crepuscolo. Regno creato passo dopo passo, grazie alla voce che riecheggia da vastità informi, talvolta buie, come onde creatrici, che passa da un contralto profondo e misterioso a un timbro liturgico da sacerdotessa non meno lirico, brilla e delinea i paesaggi abbozzati dal sottofondo musicale ove l’unico ritmo compare solo a tratti scandito da lontani e profondi timpani.
Sono in effetti evitate strutture complesse, e si lascia solo a due episodi, “Adrift” e “Neptune”, l’eredità della composizione quasi orchestrale con i suoi crescendo: nel primo, con una impronta più filmica e nel secondo, con una lenta trasformazione, che comunque non deborda dalla raffinata semplicità che caratterizza l’album dal primo all’ultimo pezzo in una ombrosa circolarità.
Probabilmente il contributo di Brendan Perry, tornando al confronto con l’era DCD, sapeva imbastire maggior complessità e varietà nei brani, ma qui scarno non è sinonimo di scarso, e l’effetto complessivo che lo strumento principale produce – ossia la voce – è all’altezza della fama della Nostra, la quale tesse una ragnatela di sentimenti sfumati e fragili che arricchiscono l’ascoltatore, che si fa trascinare via sulle ali della suggestione, senza avere fretta.
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Articolo ripreso quasi interamente da ondarock, perché era sinceramente impossibile evidenziare meglio la storia e l’attività dei Dead Can Dance e corroborato con alcune note personali.
DCD li amo. Gran gruppo e progetto musicale. Buongiorno.
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grazie Enri. Buongiorno a te
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un gruppo poco trasmesso dalle radio,ma molto interessante sotto il profilo musicale. Ho ascoltato molti brani di questo gruppo già nella mia giovinezza e li ho sempre trovati molto interessanti per gli arrangiamenti e l’atmosfera dark ambient che riuscivano a creare.
La musica ci accomuna come la scrittura (:-))
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la musica è qualcosa che vive e fa vivere! Grazie Max
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non so se è solo un problema mio, ma non riesco a visualizzare i brani…
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non so Pina, io li vedo e gli altri che hanno commentato non ne hanno fatto riferimento. Non so come aiutarti
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