Oggi ricorre la nascita di Vincent van Gogh e mi sembrava doveroso dedicare una pagina al suo genio, alla sua arte a tratti così drammatica e vera.


«Più divento dissipato, malato, vaso rotto, più io divento artista, creatore... con quanta minor fatica si sarebbe potuto vivere la vita, invece di fare dell'arte» Vincent van Gogh

Immagine correlataVincent Willem van Gogh (Zundert, 30 marzo 1853 – Auvers-sur-Oise, 29 luglio 1890) è stato un pittore olandese. Autore di quasi novecento dipinti e più di mille disegni, senza contare i numerosi schizzi non portati a termine e i tanti appunti destinati probabilmente all’imitazione di disegni artistici di provenienza giapponese. Tanto geniale quanto incompreso in vita, van Gogh influenzò profondamente l’arte del XX secolo. Dopo aver trascorso molti anni soffrendo di frequenti disturbi mentali, morì all’età di 37 anni per una ferita da arma da fuoco, molto probabilmente auto-inflitta. In quell’epoca i suoi lavori non erano molto conosciuti né tantomeno apprezzati.

Vincent van Gogh : un uomo, un artista, una tragedia. Ha lasciato un patrimonio d’ingegno da sommare a quello dei grandi nomi di un lungo passato. Abbiamo le sue sensazioni e le sue angosce trasmesse nelle opere diffuse in tutto il mondo: una vita che si è fissata nella memoria di ognuno come i quadri appesi nei musei. Ha lasciato la testimonianza degli ambienti e delle persone con le quali ha convissuto per non dimenticare e non farsi dimenticare. Forse è stata proprio la sua diversità a farlo diventare protagonista: la sofferenza vissuta quotidianamente ci è stata trasmessa in modo diretto e generoso.

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«Se anch'io potrò lavorare per tre anni in questa regione, nel silenzio, sempre imparando e osservando, allora non tornerò senza aver niente da dire di quanto in realtà valga la pena di essere ascoltato» Vincent van Gogh

Nel biennio 1886/1888 Van Gogh ha rapporti con il movimento degli impressionisti che annovera Paul Gauguin e Toulouse-Lautrec, conoscenze fondamentali per il futuro lavoro più proficuo eseguito durante il soggiorno ad Arles (l’etichetta di questo stile deriva dal titolo di un quadro di Claude Monet). Di carattere ansioso, passò da un lavoro all’altro iniziando il percorso che lo avrebbe allontanato dal tessuto sociale, incrementando le psicosi probabilmente di natura ereditaria (“tristezza che non avrà mai fine”).

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«Quando si vedono per la prima volta [i lavori degli Impressionisti] si rimane delusi: le loro opere sono brutte, disordinate, mal dipinte e mal disegnate, sono povere di colore e addirittura spregevoli. Questa è la mia prima impressione quando sono venuto a Parigi» Vincent van Gogh

Figlio primogenito di un pastore protestante, terminati gli studi fu assunto da una ditta di mercanti d’arte all’Aia, nella sede londinese e infine nella filiale di Parigi. Ritornò in Olanda nel 1876 dopo il licenziamento tentando allora la strada di insegnante di lingue. Dopo altri lavori, andò ad Amsterdam per diventare teologo ma la prova fallì. Decise comunque di andare alle miniere presso Mons dimostrando fervore nel difendere la causa dei lavoratori anche negli scioperi più duri. Nell’autunno 1880, dopo mesi di solitudine, decise di dedicarsi alla pittura. Il ritorno alla casa paterna non placò i conflitti interiori, acuiti dal suo amore per una prostituta con la quale convisse orgoglioso della sua indipendenza di pittore nella povertà. La formazione artistica di Vincent continuò disegnando contadini, tessitori, le capanne, le stanze, fino al capolavoro Mangiatori di patate del 1885.

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Dopo la morte del padre si trasferì ad Anversa e raggiunse il fratello Theo a Parigi. Nei due anni di permanenza scoprì la pittura impressionista, l’arte giapponese e conobbe Toulouse-Lautrec. La rivelazione del colore della vita quotidiana venne appresa rapidamente da questo famelico divoratore di sensazioni. Si trasferì nel Mezzogiorno della Francia stabilendosi ad Arles, entusiasta della luce del sud, pieno di ricordi e di cose viste e vissute che gli crescevano dentro. Nell’ambiente che gli era congeniale dipinse molti capolavori, tra i quali alcune delle sue immagini più serene (Giardino fiorito, Caffè di notte, La camera di Vincent).

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L’attività di Théo commerciante di opere d’arte – lo introdusse nel mondo nuovo per lui del colore e della comunicazione. Uno dei lavori del primo periodo fu proprio il quadro “I mangiatori di patate” dove mostrava simpatia verso le classi più umili rappresentando “coloro che esprimono la dignità della propria umanità, vivendo pur miseramente ma del prodotto del loro lavoro”. Anni dopo a Parigi era ancora convinto che “le scene dei contadini che mangiano patate” fosse uno dei suoi dipinti più significativi per il contenuto etico. Van Gogh iniziò a dipingere a ventotto anni senza una precisa predisposizione, forse richiamato a questo lavoro dalla conoscenza dei braccianti e dei minatori perché figlio di un pastore protestante; qui volle unire la solidarietà sociale al messaggio evangelico ma gli organi ufficiali della Chiesa – ancora eccessivamente chiusa alle istanze sociali – gli negò il consenso alle novità ‘missionarie’.

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A Parigi comprese l’esigenza di concentrarsi sulla tecnica pittorica avvicinandosi al mondo impressionista senza tuttavia accettarlo perché voleva congiungersi con le cose senza falsi effetti. In Provenza trovò l’ambiente ideale per questa teoria: infatti nell’opera Pianura della Crau, dipinta ad Arles nel 1888, i colori ”risultano a un tempo più intensi e preziosi e più calmi, di quella calma che è propria della certezza, alla fine raggiunta. Se in primo piano vi sono ancora i tocchi impressionistici, più lontano le zone danno al motivo una consistenza e una chiarezza assoluta. I toni di giallo, dal limone all’arancio, appaiono interrotti da una zona di verde, si spingono all’orizzonte che è alto ma lontano, così da apparire infinito, contro il cielo di un verde azzurro tendente al grigio. L’arte di Van Gogh, estremamente soggettiva, si è fatta oggettiva, l’anima dell’artista si è distaccata dal suo prodotto, si è annullata nell’oggetto, l’ha reso stupendo per sé, un’immagine da adorare”.

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Ad Arles, nel 1888, si rese conto della necessità di rendere con maggior forza la realtà alterando il colore per esprimere l’interiorità attraverso l’esagerazione: “dipingere l’infinito con il turchino più intenso e più violento, dipingere uomini e donne con qualcosa di eterno mediante la vibrazione dei nostri colori, il ritratto con dentro il pensiero, l’anima del modello, esprimere l’amore di due innamorati con il matrimonio di due colori complementari”.

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«Quando si fa il pittore, o si passa per pazzi oppure per ricchi; una tazza di latte ti costa un franco, una pagnotta due, e intanto i quadri non si vendono. Ecco perché bisogna mettersi insieme, come facevano gli antichi monaci, i fratelli della vita in comune nelle nostre brughiere olandesi [...] Non chiederei di meglio, ma poiché si tratta della vita in comune di diversi pittori, io dichiaro che anzitutto ci vorrebbe un abate per mantenere l'ordine e che naturalmente questi dovrebbe essere Gauguin»
 Vincent van Gogh

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Van Gogh manifestava un’aperta ammirazione per Gauguin, che considerava un artista superiore; riteneva che le proprie teorie artistiche fossero banali se confrontate con le sue. Nei primi giorni del dicembre 1888 Gauguin ritrasse van Gogh, rappresentandolo nell’atto del dipingere girasoli. Vincent commentò: «Sono certamente io, ma io divenuto pazzo». Nelle sue memorie Gauguin scrive che quella sera stessa, al caffè, i due pittori bevvero molto e improvvisamente Vincent scagliò il suo bicchiere contro il viso di Gauguin che riuscì a evitarlo, con gran spavento. Dopo quell’episodio seguirono giorni di tensione e i due litigarono in modi plateali anche in occasione di una visita al museo di Montpellier per osservare le opere di Delacroix e di Courbet: era ormai palese come i desideri di Vincent di intrecciare una fratellanza artistica con Gauguin fossero velleitari, se non ingenui. Fu così che Gauguin prese la decisione di partire da Arles.

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Le «tensioni eccessive» (così le definì Vincent) tra i due toccarono il massimo apice di virulenza il pomeriggio del 23 dicembre, quando accadde un episodio sconvolgente: van Gogh – la ricostruzione del fatto è tuttavia controversa – dopo un accesissimo alterco rincorse per strada Gauguin con un rasoio, rinunciando ad aggredirlo quando Gauguin si voltò per affrontarlo. Gauguin corse in albergo con i bagagli, preparandosi a lasciare Arles; van Gogh invece, in preda a disperate allucinazioni, rivolse verso di sé la sua furia lesionista tagliandosi il lobo dell’orecchio sinistro. Il macabro trofeo, sanguinante com’era, fu poi avvolto nella carta di giornale e consegnato come «regalo» a Rachele, una prostituta del bordello che i due pittori erano soliti frequentare, tornando poi a dormire a casa sua. La mattina seguente, la polizia, trovandolo solo, lo fece ricoverare in ospedale. Grazie alle amorevoli cure del dottor Félix Rey, van Gogh riuscì a superare i giorni più critici ed uscì dal nosocomio il 7 gennaio 1889.

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Van Gogh ha capito che l’arte non deve essere uno strumento, ma un agente della trasformazione della società e dell’esperienza umana contro la crescente tendenza all’alienazione ed alla mistificazione. Anche la tecnica della pittura deve mutare, opponendosi al razionalismo della macchina con le forze profonde dell’essere. Ogni segno è un gesto con il quale affronta la realtà per cogliere il contenuto essenziale della vita: il quadro non è rappresentazione ma “È il Mestiere di Vivere”. Miseria, tormento e solitudine lo avrebbero accompagnato tutta la vita malgrado parentesi serene e commenti favorevoli per i suoi quadri da parte di personalità di spicco come Victor Hugo ed Emile Zola. La soggettività introversa lo avvicinò all’autodistruzione: elementi fossilizzati nel leitmotiv complementare al suo genio artistico. Nel 1883 e nel 1905 furono allestite le grandi mostre degli Impressionisti francesi a Berlino e nel 1886 l’ultima esposizione collettiva a Parigi, accompagnata dalla stampa del volume critico di Felix Fénéon “Gli impressionisti nel 1886”.

«Durante la mia malattia ho visto accanto a me ogni stanza della casa di Zundert, ogni strada, ogni pianta del giardino, i dintorni, i campi, i vicini, il cimitero, la chiesa col suo orto e persino il nido di gazze sulla grande acacia del cimitero» Vincent van Gogh

Durante il ricovero ospedaliero a Saint-Rémy dipinse molto, è il periodo dei Cipressi, dell’Oliveto e della Notte stellata, paesaggi, nature morte, ritratti, alberi tormentati come esseri umani, Campo di grano con corvi.

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La sera del 27 luglio 1890, una domenica, dopo essere uscito per dipingere i suoi quadri come al solito nelle campagne che circondavano il paese, rientrò sofferente nella locanda e si rifugiò subito nella sua camera. Ravoux, non vedendolo a pranzo, salì in camera sua, trovandolo disteso e sanguinante sul letto: a lui van Gogh confessò di essersi sparato un colpo di rivoltella al petto in un campo vicino. Al dottor Gachet – che, non potendo estrarre il proiettile, si limitò ad applicare una fasciatura mentre gli esprimeva, comunque, la speranza di salvarlo – rispose che aveva tentato con coscienza il suicidio e che, se fosse sopravvissuto, avrebbe dovuto «riprovarci»: «volevo uccidermi, ma ho fatto cilecca». Rifiutò di dare spiegazioni del suo gesto ai gendarmi e, con il fratello Théo che, avvertito, era accorso la mattina dopo, trascorse tutto il 28 luglio, fumando la pipa e chiacchierando seduto sul letto. Sembra che le sue ultime parole siano state «ora vorrei ritornare». Poco dopo ebbe un accesso di soffocamento, poi perse conoscenza e morì quella notte stessa, verso l’1:30 del 29 luglio. In tasca gli trovarono una lettera non spedita a Théo, dove aveva scritto, tra l’altro: «Vorrei scriverti molte cose ma ne sento l’inutilità […] per il mio lavoro io rischio la vita e ho compromesso a metà la mia ragione».

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Essendo il pittore morto suicida, il parroco di Auvers si rifiutò di benedirne la salma, e il carro funebre fu fornito da un municipio vicino. La vicina cittadina di Méry, comunque, acconsentì alla sepoltura e il funerale si tenne il 30 luglio. Van Gogh venne sepolto adagiato in una bara, rivestita da un drappo bianco e ricoperta da mazzi di fiori, dai girasoli che amava tanto, dalle dalie e da altri fiori gialli. Oltre a Théo e al dottor Gachet furono presenti pochi amici giunti da Parigi: Lucien Pissarro, figlio di Camille, Émile Bernard, père Tanguy.

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Pochi mesi dopo, anche Théo van Gogh, distrutto dopo la morte del fratello, venne ricoverato in una clinica parigina per malattie mentali. Dopo un apparente miglioramento, si trasferì a Utrecht, dove morì il 25 gennaio 1891, a sei mesi di distanza da Vincent, oppresso dai sensi di colpa di non avere aiutato il fratello a sufficienza. Nel 1914, le sue spoglie, per volontà della vedova Johanna van Gogh-Bonger, furono trasferite ad Auvers e tumulate accanto a quelle dell’amato fratello. Johanna chiese che un ramoscello di edera del giardino del Dottor Gachet venisse piantato tra le due pietre tombali e ancora oggi le lapidi sono immerse in un groviglio di edera.

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Dopo l’iniziale pittura della povertà contadina e operaia, Van Gogh volle impersonare tale miseria e viverla in prima persona. Influenzato dall’impressionismo, lo trapassò con la forza delle grandi passioni sociali del secolo. Pittura e vita, per lui, divennero una cosa sola. Emarginato dalla società borghese nonostante i ripetuti tentativi di integrarsi, affidò la sua contestazione alla semplicità esistenziale dell’artista che sta dentro la vita e nelle zone più povere, più malate, fu un sublime pittore della fisicità ma la visse nei suoi conflitti morali con una intensità così potente da sembrare così folle da non poter essere comunicata.

«Sogno di dipingere e poi dipingo il mio sogno» (Vincent Van Gogh)

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Film

Lust for Life del 1956 diretto da Vincente Minnelli. Vita, sofferenza e morte di Van Gogh che produsse 800 quadri in dieci anni. L’aderenza fisica dell’attore Kirk Douglas al personaggio è sconcertante e Antony Quinn – premio Oscar per i suoi otto minuti di interpretazione – ha dato alla figura del pittore francese Paul Gauguin un risalto indimenticabile. Interessante il lavoro sul colore compiuto da Minnelli e dei tre operatori. La sceneggiatura è basata sul libro del 1935 di Irving Stone.

Vincent del 1987 diretto dall’australiano Paul Cox. Vita di Van Gogh, figlio di un pastore protestante che, giunto a Parigi nel 1886, conobbe gli impressionisti, l’arte giapponese e Paul Gauguin. Trascorse il periodo di creatività ad Arles e morì suicida. A confronto delle biografie romanzate di altri film, ‘Vincent’ è un approfondito documentario dedotto dal suo epistolario.

Vincent et Théo del 1990 diretto da Robert Altman. Realizzato per la televisione, racconta dieci anni (dal 1880 al 1890) del pittore e del fratello Théo, gallerista che lo mantiene e lo sostiene con un affetto commovente. È imperniato non tanto sulla grandezza artistica quanto sulla quotidianità del personaggio.

Van Gogh del 1991 diretto dal francese Pialat racconta gli ultimi tre mesi di vita del pittore trascorsi in una casa di campagna con il suo medico curante e ammiratore. Dipinge e corteggia la figlia del suo protettore. La salute minata, il rancore verso il fratello-mecenate Theo che non riesce a vendere i suoi quadri, la smoderatezza in bordelli e bettole lo portano all’autolesionismo. Tenta il suicidio in modo non grave ma muore per mancanza di cure appropriate. Sceneggiatura scritta dallo stesso regista, otto mesi di riprese.


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Le notizie che formano il presente articolo sono state tratte da www.wikipedia.it e da un bellissimo articolo di Giuliano Confalonieri su  www.artericerca.com

 

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