Il jazz è un linguaggio musicale estremamente emozionale, nato dall’improvvisazione, ma che necessita allo stesso tempo di notevole perizia tecnica; basato sulla varietà ritmica e del fraseggio, vanta ricchezza armonica e splendide melodie. Pur essendo principalmente musica strumentale, il jazz ha espresso nel tempo, a cominciare da quella di Bessie Smith, voci straordinarie per intensità, calore interpretativo e tecnica.
ORIGINALITÀ DI UN’ARMONIA
La musica jazz degli albori era basata su combinazioni di elementi musicali africani, articolata cioè su una scala pentatonica, con caratteristiche blue notes, armonie derivate dalla musica colta europea, ed un notevole uso del ritmo sincopato, o con maggior precisione di poliritmi; la differenza tra musica colta e jazz si poi è notevolmente sfumata tanto che non è raro assistere a performance classiche di musicisti jazz e performance jazz di musicisti classici.
L’armonia (l’insieme degli accordi che stanno sotto la melodia) del jazz proviene da quella del blues che è assolutamente caratteristica, peculiare, che non ha simile, da essa deriva anche il corrispettivo religioso del blues, lo spiritual (o gospel).
La musica Jazz si può considerare come un nuovo varco verso altri mondi musicali, dal blues che era solo una esemplificazione della scala pentatonica, si è passati allo sviluppo di molti standard, dove viene modificato in continuo ogni modulo armonico, melodico, e ritmico. Si può dire che la musica moderna è tutta figlia della poetica iniziale del blues.
ORIGINE DEL TERMINE
L’origine della parola jazz, è incerta. Alcuni dicono che deriva dall’espressione “jazz them, boys” (coraggio, ragazzi), e alcuni dicono che deriva dal termine jaser (chiacchierare, dialogare), dato che in effetti il jazz si basa sul continuo dialogare fra musicisti.
Un’altra ipotesi fa derivare da jass dalla parola di etimologia francese jaser (gracchiare, fare rumore, perfino copulare nel dialetto della Louisiana francofona dell’700).
La linea etimologica francese jaser-jass sembra avvalorata dai giornali dalla fine dell’800 al 1918 e dalle testimonianze di musicisti di New Orleans, secondo cui questa musica veniva considerata in ambienti tradizionali come “fracasso”, “rumore sgradevole”, musica “cacofonica” e perfino “orgia sessuale”.
In contrasto con questa teoria, recenti testimonianze raccolte tra alcuni musicisti in attività a New Orleans all’inizio del XX secolo indicano che la parola non è stata usata a New Orleans per denotare una musica fino al 1917, quando vi arrivò in una lettera che Freddie Keppard spedì da Chicago a Joe “King” Oliver, che la mostrò al suo protetto Louis Armstrong.
Un’ipotesi recente è che la parola abbia una provenienza settentrionale, con le prime attestazioni di uso localizzate nell’area di San Francisco.
Il ricercatore Gerald Cohen ha appurato che la parola inizia ad apparire sul giornale San Francisco Chronicle nel 1913, come sinonimo di vigore, energia, effervescenza. Il cronista che la usò l’avrebbe mutuata da un altro cronista, che a usa volta l’avrebbe sentita usare da giocatori di dadi durante una partita.
Altri associano la parola jazz al gergale to jizz (jism), parola sconcia che indica la virilità maschile o l’atto di eiaculare. Così per alcuni jazz music sarebbe quindi stata “musica da eiaculazione” per la sua presenza nei bordelli, per altri avrebbe inizialmente significato “musica da poco” ovvero – in positivo – “musica effervescente”. Se anche questo fosse vero, è molto probabile che questa associazione si fosse persa nel 1913 o difficilmente la parola sarebbe stata stampata su un quotidiano.
Ad ogni modo dopo che la parola “jazz” fu resa famosa, essa si arricchì rapidamente di connotazioni anche negative al punto da essere talvolta utilizzata come epiteto.
Altri ritengono che la parola jazz derivi da Jar che in inglese significa vaso. In effetti i primissimi suonatori di colore usavano dei vasi rovesciati come delle percussioni da cui dall’inglese “to play jares” suonare dei vasi, delle giare, oppure dei barattoli. Suonare con dei vasi la cui pronuncia è la stessa di “to play jazz”. Pian piano sarebbe diventato appunto Jazz
ORIGINI E STORIA DEL JAZZ
Molti sono gli antenati del jazz: reminiscenze della musica africana, canti e richiami di lavoro, canti religiosi spiritual delle chiese protestanti, canto blues degli afroamericani, ragtime pianistico di derivazione euro-americana, musica europea per banda militare e perfino echi dell’opera lirica sono i più importanti elementi che hanno contribuito a questa fortunata e geniale sintesi artistica.
Le radici del jazz affondano nella cultura musicale africana della vita di tutti i giorni degli schiavi neri (sebbene molto contaminata dalle culture europee, soprattutto inglesi e francesi, dominanti nel sud degli Stati Uniti). Queste persone avevano con sé una tradizione che esprimevano mentre lavoravano (i cosiddetti “field hollers” e “work song”), mentre pregavano (gli “spiritual”, che negli anni trenta del XX secolo avrebbero dato origine al “gospel”) e durante il loro tempo libero. Già nel 1819 l’architetto Benjamin LaTrobe lasciò testimonianze scritte e disegni di feste di schiavi che si riunivano in Congo Square, una piazza della città, per ballare e suonare usando strumenti e musiche improvvisate.
Nel corso del XIX secolo e soprattutto nella seconda metà, le tradizioni musicali afroamericane iniziarono a trovare eco in spettacoli d’intrattenimento, attraverso varie forme di rappresentazione, delle quali forse le più famose erano i “Minstrel show” che in una cornice carica di stereotipi razziali rappresentavano personaggi tipo dell’afroamericano. Le musiche di scena di questi spettacoli erano rielaborazioni di musiche afroamericane (o presunte tali).
Da questo substrato musicale emerse, alla fine dell’Ottocento, un canto individuale che venne chiamato blues e che ebbe una vasta diffusione, anche attraverso i nascenti canali commerciali, tra la popolazione afroamericana. La combinazione armonica e melodica che si trova nel blues si ritrova nel jazz fino dalle origini.
La patria del jazz fu indubbiamente New Orleans, in Louisiana. Da lì provengono pionieri come Jelly Roll Morton, Joe “King” Oliver e Buddy Bolden che dopo aver formato una banda nel 1895 viene considerato il primo jazzista della storia. Un ruolo predominante lo ebbe il quartiere di Storyville che tra il 1986 e il 1917 fu teatro di delinquenza, di prostituzione e di una nuova musica che veniva suonata in ogni locale e in ogni angolo di strada. Probabilmente è a questo che si deve la pessima reputazione che nei primi tempi aleggiava sul jazz.
Fu la città di New Orleans, a raccogliere e favorire i più significativi incontri dei musicisti neri dell’epoca, e a segnare una svolta storica nella musica popolare americana. Ma il primo documento originario ci viene fornito, a New Orleans, dalla Original Dixieland Jazz Band, che nel 1917 incide, appunto, il primo disco della storia del jazz. A quattro anni dopo risale, invece, la prima incisione di jazz di una band nera, mentre nel 1923 la Creole Jazz Band, con Louis Armostrong allora seconda cornetta, inizierà ad incidere a Chicago. Fin dall’inizio, le improvvisazioni jazzistiche appaiono radicalmente diverse dalle variazioni sul tema di matrice europea, fattore dovuto al concetto ispiratore del jazz : il definirsi qui e ora come unico e irripetibile momento musicale, rappresentazione di una vera e propria filosofia di vita.
Gli anni ‘20 vedono la definitiva affermazione del jazz anche grazie a musicisti come Louis Armstrong, il primo a rendere predominante la figura del solista e a Fletcher Henderson, pianista fondamentale nel divulgare il ruolo di leader e arrangiatore di un’orchestra. Nel frattempo, le prime tourneé concertistiche in Europa contribuiscono notevolmente alla diffusione del suo verbo oltreoceano.
L’ascesa del jazz è inarrestabile! Viene celebrata in letteratura come nel caso de “Il grande Gatsby” (1925) di Francis Scott Fitzgerald, e viene sublimata al cinema con “Il cantante di jazz” (1927), il primo film sonoro della storia diretto da Alan Crosland e interpretato da Al Jolson. E diviene da subito oggetto di studi con André Schaeffner, musicologo francese che nel 1926 pubblica un libro dal titolo inequivocabile: “Le jazz“.
Verso la fine degli anni ‘20 e fino ai ‘40 si distinguono le big band dirette da musicisti come Benny Goodman, Artie Shaw, Duke Ellington, Count Basie e Glenn Miller. Il successo di questi complessi allargati consente da un lato di mettere in luce molti solisti dotati e dall’altro di accompagnare la diffusione di nuovi balli. Il più celebre di questi balli fu di gran lunga lo swing (che porta l’accento ritmico sul secondo e sul quarto tempo della battuta) tant’è che per riferirsi a quel periodo si parla comunemente di ‘Swing Era’.
L’avvento della seconda guerra mondiale pose fine al periodo delle grandi orchestre, non solo per le ristrettezze economiche. Gli anni ‘40 infatti, segnano un momento cruciale nel processo di maturazione del jazz. A New York, dalle jam session notturne di una nuova generazione di jazzisti, prende avvio la rivoluzione bebop. Il termine deriva dal caratteristico suono di due note che ricorrevano nei brani.
Piccola parentesi sul bebop (spesso abbreviato in bop) è uno stile del jazz che si sviluppò soprattutto a New York negli anni 1940. Caratterizzato da tempi molto veloci e da elaborazioni armoniche innovative, il bebop nacque in contrapposizione agli stili jazz utilizzati dalle formazioni contemporanee. Nei suoi primi anni di vita la parola “bebop” indicò, oltre allo stile musicale anche lo stile di vita e l’atteggiamento ribelle di coloro (che erano in maggioranza giovani) che si indicavano come “bopper”. Anche per questo motivo il bebop divenne popolare tra i letterati che si riconoscevano nella cosiddetta Beat Generation e fu citato in alcune delle loro opere più famose (ad esempio nella poesia Urlo di Allen Ginsberg). Nel corso dei 15 anni successivi, il bebop e le sue ramificazioni si evolsero fino a diventare il principale idioma del jazz. Ancora nel primo decennio del XXI secolo, lo stile jazzistico indicato come “mainstream” si rifà essenzialmente alle elaborazioni stilistiche del bebop.
Era una musica basata su piccoli complessi che attraverso un approccio libero e ardito ristrutturava completamente l’idea di jazz dal punto di vista, armonico, ritmico, melodico e sonoro. Furono molti i protagonisti storici di quel periodo. Da Charlie Parker e Dizzy Gillespie (i due esponenti principali del movimento), a Thelonius Monk, Bud Powell, Fats Navarro, Miles Davis, Charles Mingus, Kenny Clarke, Max Roach, John Coltrane e tanti tanti altri nomi fondamentali che di lì a poco entreranno nella mitologia jazzistica.
Miles Davis (di cui parleremo ancora più avanti) era uno sperimentatore ma è doveroso ricordarlo come musicista miliare nell’ambito dell’hard bop, o tardo bop, dove suonò a lungo una musica essenziale e parca di note, ma dall’alto di contenuti ricercati, assieme al sassofonista John Coltrane, che sperimentò il superamento delle forme modali attraverso il suo stile urlato; altro perno significativo del bop ai confini del free, nonché nel free stesso, la ricerca di Coltrane è assimilabile, per certi versi, a quella dell’altro sassofonista, Ornette Coleman, abile anche alla tromba e al violino. Un accenno doveroso al cool jazz, o jazz freddo, quantomeno per ciò che hanno significato le atmosfere atonali del primo dopoguerra: le sonorità povere di ritmo di Lennie Tristano costituivano l’inusuale, ma raffinata, offerta bianca a un genere musicale, quello del jazz, dalle mille proposte e sfacettature, che così da vicino ripercorse tappe e contraddizioni di un ventesimo secolo dalle caratteristiche in continuo mutamento.
Il free jazz, o più semplicemente free music, era il rifugio dell’americano nero degli anni sessanta – settanta, ove preferisse aggredire per irridere, stravolgere e vanificare ogni tematica tonale e consumistica, rappresentativa di quelle tradizioni culturali dei bianchi nelle quali non si riconoscesse affatto e che, anzi, combattesse senza sosta, ponendosi, come unico obbiettivo dignitoso, la parità sociale dei diritti. Era una musica di difficilissimo ascolto, per coloro che non avevano potuto condividerne le esperienze, nella stessa misura, d’altra parte, delle sperimentazioni elettroniche e dodecafoniche della musica contemporanea (provenienti da assunti di diversa origine: quest’ultime, infatti, rigorosamente fissate su spartito).
La storia dell’afroamericano era troppo densa di oppressioni e tragedie, troppe menti sprofondate nella Nothingness (termine intraducibile se non nell’unico significato che la storia ha assegnato all’americano di colore: nullità…). Troppo caro era il peso dell’esser nero: ora il jazz pretendeva libertà, libertà assoluta. Perché “quando gli Americani devono andare nel Vietnam o a Berlino, noi non chiediamo solo bianchi, ogni americano dovrebbe avere il diritto di essere trattato come lui desidera esserlo, come vorrebbe che i suoi bambini fossero trattati; ma non accade così…”, come affermava il presidente John F. Kennedy nel giugno del 1963, pochi mesi prima di essere assassinato. “Nero è bello” affermava Malcom X, ottenendo echi e risultati: naturalmente anch’egli in cambio del prezzo della vita (fu assassinato a New York nel 1965). Identica sorte sarà serbata a Martin Luther King nel 1968; Nobel per la Pace nel 1964, di ispirazione Gandhiana, organizzò manifestazioni non violente in disobbedienza civile, riuscendo ad attirare cortei dalle dimensioni incalcolabili (stimati nell’ordine delle 250.000 unità). La schiavitù era ormai superata, ma bisognava ancora raggiungere, evidentemente, l’eguaglianza razziale.
Gli anni sessanta segnarono per gli Stati Uniti la fine dell'”età dell’oro” di Eisenhower e inaugurarono un periodo di profondi mutamenti, in cui la musica in generale e il jazz in particolare non furono estranei.
Molti musicisti acuirono la propria consapevolezza sociale nell’epoca delle lotte della popolazione afroamericana per la conquista della parità dei diritti civili negli Stati del Sud: molti musicisti (tra i più notevoli Max Roach, Sonny Rollins, Charles Mingus) crearono composizioni dedicate al movimento con titoli significativi quali “Freedom Suite” (suite della libertà) e diedero vasta eco al proprio impegno sociale. Perfino Louis Armstrong, che godeva di un’immensa popolarità anche al di fuori dei ranghi del pubblico del jazz ed era solito separare strettamente la propria vita privata dalla propria immagine pubblica, rifiutò di partecipare ad una tournée all’estero organizzata dal dipartimento di stato in segno di protesta per il trattamento dei neri negli Stati del Sud.
Un’altra forza che cambiò la forma del jazz fu l’emergere di un vasto mercato di massa rivolto ai giovani, i cui gusti andavano alle sonorità più nuove ed orecchiabili della musica rock, funky e soul, celebrate in enormi concerti di massa che regalavano agli artisti che vi partecipavano e alle case discografiche che li sostenevano vendite senza precedenti. Mentre molti dei musicisti dei decenni precedenti scomparvero nell’oscurità, o emigrarono in Europa dove il clima era più favorevole, ed altri semplicemente aderirono ai nuovi movimenti, altri scelsero di cercare di fondere il jazz con le nuove sonorità e modi di produzione.
Negli anni settanta alcuni musicisti jazz sentono il bisogno di allargare i propri confini. Vogliono fare nuove esperienze in quanto sentono che tutte le strade sono state già percorse. È l’epoca degli strumenti elettrici, Chitarre e Tastiere. Molti cercano la direzione più commerciale e il desiderio di confrontarsi con gli idoli dei giovani, chitarristi e cantanti rock, ma Miles Davis prima, Herbie Hancock, Weather Report e molti poi, promuovono nuova musica ispirandosi al funk al rock al soul. In quegli anni si mescolano stili diversi facendo nascere un vero e proprio genere definito Jazz-rock o Fusion o Jazz elettrico. Secondo alcuni storici le strade del jazz e quelle del rock cominciarono a mescolarsi fra il 1967 e il 1968 quando il vibrafonista Gary Burton, il flautista Herbie Mann, il trombettista Don Ellis ed altri, adottarono nelle loro band alcuni strumenti elettrici donando al loro jazz una velo pop inizialmente tenue ma poi sempre più osservabile.
Il primo gruppo di jazz rock fu “Fourth Way” fondato nel 1968 da Yusef Lateef e Mike Nock destinati ad influenzare uno dei musicisti più importanti di questo genere, Joe Zawinul. Il jazz, comunque, resiste all’elettrificazione fino a tutti gli anni sessanta. L’incontro tra jazz e rock avviene, fisicamente, nelle strade, nelle manifestazioni per i diritti civili e contro la guerra, nelle università occupate e si espande nelle cantine dove si suona il jazz e il rock e sui palchi dove il jazz ed il rock si danno il cambio. Il rock cerca nel jazz il fulcro della sua liberazione, il jazz cerca nell’elettricità del rock una nuova accessibilità a comunicare. Ci vorrà un genio, una personalità carismatica e imprevedibile per consacrare il passaggio al di fuori d’ogni compromesso commerciale. Questi è Miles Davis. Davis è dunque la chiave di questa rivoluzione nei suoi dischi compaiono Ron Carter, Tony Williams, Herbie Hancock, Wayne Shorter, Joe Zawinul, Chick Corea, Jack De Johnette, Airto Moreira, Keith Jarrett, John McLaughlin.
Nei primi anni settanta sono i “figli” di Davis a creare davvero il genere, infatti, perché si possa parlare di jazz-rock, c’è bisogno dei suoi discepoli. Primi fra tutti i Weather Report di Shorter e Zawinul il loro jazz rock è elettrico coinvolgente ed intellettuale. Il discorso cambia per Herbie Hancock e Chick Corea che, diventando delle vere star del jazz rock, mescolano l’esigenza di comunicazione al calcolo economico, infatti, l’esperienza con Davis ha aperto a Chick Corea la strada che lo ha consacrato una star della fusion: nel 1972 fonda con Joe Farrel, Stanley Clarke, Flora Purim, Airto Moreira, i Return to Forever.
Nel frattempo da Davis nascerà una nuova generazione di allievi: John Scofield, Marcus Miller, Gary Thomas, Mike Stern, Kenny Garret, Mino Cinelu, Bill Evans, Bob Berg, Al Foster, Darryl Jones.
Un altro è il cambiamento epocale che sta avvenendo; la chitarra elettrica nel jazz non ha mai avuto un ruolo di guida, ma con gli anni settanta sbarca una costellazione di chitarristi: Larry Coryell, Allan Holdsworth, Mike Stern, Bill Frisell, John Scofield, Vernon Reid e Pat Metheny.
Nell’immaginario collettivo del jazz rock due chitarristi si elevano per stile, personalità, carattere: Bill Frisell e John McLaughlin. Nel 1974 Pat Metheny regala il suo contributo ad una session di grande rilievo nel jazz rock suonando con Paul Bley, Bruce Ditmas, e Jaco Pastorius. Con Pastorius, virtuoso del basso nell’universo jazz rock, affronta alcuni dei capitoli fondamentali della sua carriera. Infatti, Pastorius, con Bob Moses è nell’album d’esordio di Metheny “Bright size life” del 1975 e nel 1979 si rincontreranno in un memorabile tour di Joni Mitchell. Nel 1973 un altro figlio di Davis, Herbie Hancock, spiccato nel contesto del jazz elettrico come mago delle tastiere, da vita agli Headhunters dando uno dei migliori esempi di fusion, forse il più vicino alla consuetudine nera americana tra tutti i discepoli di Davis. Negli anni ottanta la fusion diventa la forma prevalente del jazz in quanto riesce ad accostarsi a culture diverse dalla cultura afroamericana, per il suo rapporto con gli strumenti elettrici ed elettronici e per l’assillante tecnicismo. Ed è proprio quest’ultimo a rendere sterile il genere trasformando molti musicisti in acrobati del proprio strumento stimolando interesse del pubblico non per le buone idee ma per la velocità d’esecuzione. La fusion è ancora tra noi trovando forza dall’incontro con la world music e familiarizzando con il rap, rimandando in realtà tutto alle origini.
MUSICA DOTTA MA POPOLARE
La musica jazz ha avuto – con il passare del tempo – sempre più estimatori anche nel Vecchio Continente, dove è assai diffusa. Anche in Italia vi sono stati e vi sono ottimi musicisti jazz (ed anche la musica popolare, quella leggera, non rinuncia sovente ad attingere – caso lampante, il cantautore Paolo Conte – a questo genere musicale).
Tutta la musica jazz derivata si è definita come dotta, appunto per il presupposto che è risultante della conoscenza della musica classica, e delle varie etnie musicali. Lo stesso non può dirsi per il blues iniziale. Il passaggio di qualità può benissimo attribuirsi a George Gershwin, musicista di grande valore, figlio di emigranti russi, morto giovanissimo ma che ebbe dei maestri importanti e fu ispirato da autori come Debussy e Ravel. La sua produzione è incredibilmente vasta, ma restano più valide le opere definite minori (circa 700), utilizzate anche ora come standard inesauribili. Ricordiamo che lo stesso Debussy venne influenzato dal jazz, come si può ben vedere nel Golliwogg’s Cake-walk posto alla fine di una delle sue più celebri suite per pianoforte “L’angolo dei bambini”.
Attualmente si può parlare di parte della musica brasiliana e argentina come genere dotto (Jobim, Piazzolla e altri) come causa di tale fenomeno. Molti standard jazz, poi, utilizzano ampiamente i modelli brasiliani e argentini.
Una regola da non scordare, alla base di ogni composizione, e difficilmente eludibile, sta nella poetica (musicale). Questo fattore è in grado di selezionare opere e autori, secondo criteri profondi.
(da Wikipedia e altre fonti reperite nel web)
Allora carissimo Rosario ho trovato questo post e giuro che tornerò a leggerlo con calma. Ho il pc che non mi funziona bene e così tra caldo tra wordpress che cambia metodo di lettura e tempo a disposizione poco, con un pc che va lentissimo e a volte nemmeno parte, non posso dedicarmi a voi come vorrei. Ma da te con massimo piacere e interesse tornerò senz’altro appena possibile. Ricordati che anche se posso stare qui poco, non dimentico chi mi piace. Un abbraccio e ho visto che qui c’è molto da leggere. Bravo. Isabella
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