Vagheranno mute le distese,
sulle corde il ghiaccio non sarà acqua,
fredda e spoglia Sevan
non conoscerà ritorno.

Il tempo cadrà come ossa dal cielo
e i giorni, come gesti incompiuti,
non vorranno che pietre.

Incroci di croci le montagne
mentre la musica ricorderà Jerevan
per un cortometraggio
inutile.

Piangeranno capelli le donne
di taglio ai numeri, sui carri inutili sospiri
sapranno i volti al gelo.

Il popolo in marcia, le giovani albe scalate
e abbandonate, il ferro
di altri uomini per pulire il mondo.

-a vicinanze di corpi
il sole lento annuncia aprile
e come filo spinato
stende-

Per noi aprile significa liberazione, emancipazione dal giogo e dalla violenza, respiro e futuro. Ma per altri popoli è stato deportazione, asservimento e morte. Questa è una poesia dedicata alla memoria di migliaia di armeni strappati alle loro case e massacrati negli anni 1915-1916.

Nella notte tra il 23 e il 24 aprile1915 iniziarono i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli. L’operazione continuò l’indomani e nei giorni seguenti. In un solo mese, più di mille intellettuali armeni, tra cui giornalisti, scrittori, poeti e perfino delegati al Parlamento furono deportati verso l’interno dell’Anatolia e massacrati lungo la strada. Arresti e deportazioni furono compiute in massima parte dai «Giovani Turchi». Nelle marce della morte, che coinvolsero 1.200.000 persone, centinaia di migliaia morirono per fame, malattia o sfinimento. Queste marce della morte furono organizzate con la supervisione di ufficiali dell’esercito tedesco in collegamento con l’esercito turco, secondo le alleanze ancora valide tra Germania e Impero Ottomano e si possono considerare come “prova generale” ante litteram delle più note marce ai danni dei deportati ebrei durante la seconda guerra mondiale.